Rabbia

background-84678_1280Salii su un convoglio senza aria condizionata. Il caldo era insopportabile e malsano, quasi da attacco d’ansia e svenimento. Un’atmosfera solida e soffocante, qualche viaggiatore seduto. Mi chiesi come potessero resistere, lì, sopportando con grazia. Non era solo calore: era mancanza di ossigeno, di respiro. Mi mossi in avanti, camminando decisa, e venni ripagata da alcune carrozze fresche.

L’indomani mi capitò qualcosa di molto simile: non sul treno del ritorno – dopo un’intera giornata di sole e caldo – ma al mattino. C’erano trenta gradi da poco tempo e un pizzico di aria riusciva a fuoriuscire da qualche apertura. Mi accomodai senza pensarci, il sole mi batteva addosso con prepotenza. A Rogoredo mi spostai, per migliorare lievemente la mia condizione.

«Ci pensai tutto il giorno a questo atteggiamento, sai?»

La mia estetista mi ascoltò attenta. Stavo per affrontare un trattamento rilassante, prima delle ferie. Non l’avrei vista per più di un mese e mancava solo un massaggio per lasciare un ricordo positivo del suo passaggio.

In altre circostanze della vita, quando il caldo si rivelò insopportabile, mi diressi subito più avanti, incurante delle altre persone, di chi – chissà perché – stava lì. Non mi posi alcuna domanda e non diedi per scontato che lungo tutto il treno mancasse l’aria. Non mi fermai in laboratorio, in università, perché quel senso di inadeguatezza mi colse subito. Non mi lasciai vincolare dalle altre persone, né dall’idea che quel treno sarebbe stato tutto così, identico a sé stesso.

Mi accomodai inizialmente in un altro contesto simile, ma dal calore sopportabile: un’azienda farmaceutica mi fece crescere e scaldò le mie consapevolezze per due anni . Non mi spostai da sola con la grinta che ora possiedo, ma ciò che doveva scegliermi, mi scelse.

Oggi il tepore è così lieve e guantato che per schiodarmi dal mio sedile mi ci vorrebbe molta più riflessione, coraggio. Forse rabbia? Con chi dovrei arrabbiarmi e per cosa?

Antonia mi guardò perplessa, le mani unte di olio trafissero la mia schiena. «Stai scegliendo?» mi chiese lei, senza esitare.

«Non percepisco scelte, purtroppo – le risposi -. I posti in treno sono quelli, non ne trovo di migliori. Ma sono furiosa e non so perché. Ho una vita bellissima, ma dentro qualcosa rumoreggia, si gonfia, si riempie di acque scure».

Lei tacque a lungo per darmi tregua. I confini erano incerti e confusi. Veniva prima l’insoddisfazione o la rabbia? E le scelte – inesistenti o incapaci a compiersi – erano causa o conseguenza?

«Mi sento come se ogni mio sforzo verso un vagone migliore fosse vanificato, come se ci fosse qualcosa lì, pronto a venire. Un orgasmo che non si compie, una novità che non emerge, che si nasconde, o troppo piccola per generare stupore».

Ho una fame da placare, una costante ricerca. Ma di cosa vorrei nutrirmi? Riempio quello stomaco fittizio con lo sport, esagerando e facendomi male. In passato non sceglievo per paura del non-scelto, per non chiudermi e indirizzarmi. Restavo alla superficie delle cose: facevo, smettevo, abbandonavo, ritornavo, mi tuffavo e risalivo immediatamente.

«Nei miei viaggi – dissi all’estetista, quasi per giustificarmi – non sono bulimica. Li scelgo con cura, uno per ciascun anno. Preparazione, itinerario e ritorno diventano un rito delicato. Li medito, li studio, li plasmo da sola. E con il Brasile ho anche abbandonato quella parte arraffona, insaziabile, che non sa scegliere e vuole ingurgitare tutto il possibile. No, questa volta mi dedico a poche tappe, fatte con cura. Questa volta vince lo stare sull’andare. Il rimanere per assaporare».

«Bene, ma dimmi… concentrati su ciò che non collima. Lascia perdere per un attimo questo bel risultato nei viaggi o il rischio calcolato che hai compiuto sul lavoro poco tempo fa… dimmi invece, cosa non collima con te? Con chi sei arrabbiata e cosa cerchi?»

Ma sì, Antonia, lo sai, vero? Forse sono la mia ambizione e l’incapacità di accettare un treno tiepido, senza vagoni migliori?  Vorrei solo poter sfruttare ogni micro potenzialità che ho a disposizione per dare un senso a me stessa. Non voglio che il mio dato di realtà sia questo scalino lavorativo, non voglio che sia proprio questo dato di realtà a scontrarsi con i miei desideri facendoli capitolare. Va bene avere a che fare con altre impotenze, dal Brasile alla casa, fino addirittura all’amore. Ma non voglio che questa sia la massima ambizione professionale alla quale io possa aspirare. Non mi interessa più l’orizzonte aperto, né le molteplici possibilità del non-scegliere. Ora desidero scegliere, ora voglio e devo vincolarmi alle mie capacità.

Eppure, eppure c’è altro… non sapere cosa mi indispone. Sai quando ti sfugge qualcosa,  e non è nemmeno sulla punta della lingua? È sconosciuto, ma c’è.

Antonia non aspettò le mie risposte confuse: «Riposa, prenditi questo viaggio per fare ciò che sai fare: liberare e riordinare la mente. Saprai scegliere, saprai capire e sciogliere la rabbia»,  disse strofinandomi le tempie e il cuoio capelluto.

Io mi misi a giocare con l’anello, senza pensare, ero solo un po’ più triste, più nervosa. Ultreya, ossia “vai avanti”, è la parola incisa sopra quel cerchio. Ne ho sognato uno identico, ma sporco, rovinato, ammaccato. Quanto dovrò ammaccarmi e sporcarmi prima di riunire i pezzi e andare avanti?

In libera armonia

harmonica-748243_1280Volevo scrivere di libertà. Quella che ho sentito forte pulsare sotto la pelle in questi giorni, in cui il lavoro mi incatenava alla sedia. In cui il dolore alla tibia mi impediva di correre bene, come avrei voluto.

Mi sono sentita libera, nonostante i vincoli da ufficio, i procrastinare, il rimuginare. La sentivo come l’acqua che scorre, dentro di me. Ero libera nei miei vestiti estivi, sperimentando lunghezze e colori. Ero libera nelle ore notturne, rubate per scrivere ciò che è diverso e quindi più mio.

Ero libera di cercare la solitudine e amarla, ero libera nel progettare le tratte brasiliane con paura ed errore. Ero libera nel desiderare un uomo. Ero libera di desiderare e ottenere – con un atteggiamento timido e inconsciamente provocante – sguardi carichi di altrui desiderio. Ero libera di sentirmi asociale, sportiva, insicura e determinata. Ero libera di fregarmene, ero libera di far sentire la mia voce e perdere la pazienza. Ero libera di stare e andare.

Ero libera di immaginare e leggere, con il naso che toccava quasi il libro, per esserne ancora più rapita. Libera di dire no, un sì, qualche forse. Libera di commentare e di urlare canzoni. Libera di dire “non lo so”. Libera di sdraiarmi dalla mia estetista e chiacchierare di cose vecchie e nuove, tra un piede e una mano smaltata. Libera di essere permalosa, di accettarmi, di rispecchiarmi in parole altrui. Libera di sentirmi come Murakami, di essere ambiziosa, di visualizzare il successo. Libera di vedere segni e frecce nel lavoro e nell’oroscopo di Rob. Libera di prendere un treno a mezzanotte e venticinque e tornare a piedi per il centro all’una di notte. Libera di cantare con le cuffie mentre cammino, con la gente che sorride o mi piglia per matta.

Libera di avere una gonna cortissima, libera di percepire commenti di altre donne (su cosa non saprei, e nemmeno la loro natura) e ridere perché finalmente me ne frego. Non me ne importa proprio. Libera di sventolare le mie opinioni e di non parlare, di essere fredda, di sentire confidenze. Libera di chiedere aiuto. Libera di volere un bacio e non averlo. Libera di invidiare. Ah, quanta invidia di chi fa. Di chi scrive. Di chi ha un lavoro unico e creativo, artistico. Libera di avere paura, e di superarla o di tenerla stretta. Di andare a letto tardi, di mangiare al giapponese e all’indiano, di far uscire una me che non mi aspetto. Come se mi sentissi parlare da fuori. Libera di aspettare un’amica e di sceglierla. Libera mentre gli altri mi mangiano il tempo, libera mentre quel tempo lo ricreo.

Non è della libertà in realtà che vorrei parlare, ma di quel legame, quell’anello che manca e collega i miei due “io” (a volte in pace a volte in guerra) per farne un’unica persona, in libera armonia.

Tiziano Ferro

11705952_10153567263045209_1466884492_oNon piango più come una volta. Non sfrutto quella valvola di sfogo. Non mi sentivo debole, ma capace di buttare fuori ogni cosa. Certo, significava anche essere inetta nell’affrontare minuzie, sensazioni, rimproveri, insoddisfazioni. Ingombravano la mia mente e uscivano sotto forma di lacrime. E il senso di colpa innescato dalla consapevolezza di avere tutto e non sentirsi a posto acuiva un disagio, un vuoto. Però piangevo. Almeno piangevo.

Ora qualcosa si è rattrappito e cristallizzato all’altezza dello sterno, mi disse una cartomante a una festa di paese. Non una di quelle feste con le zanzare e la pelle appiccicosa, né con le giostre e lo zucchero a velo o le frittelle. Era invece dolciastra e affettuosa, sottile e delicata. La cartomante mi parlò di amore, ovviamente, e di quel sentimento che sta lì e non permette di scegliere, di dare vita a qualcosa. Preferisco rinunciare. Perché? Banale sarebbe dire che non voglio soffrire.
C’è qualcosa di più. Qualcosa che non voglio perdere e qualcosa che non voglio acquistare. Qualcosa che mi fa chiudere per difendermi. Qualcosa che mi fa dire: rinuncio, pur di lasciarmi aperto un orizzonte ampio e solo mio. Mi viene in mente Piazza Unità d’Italia a Trieste. Quell’apertura della terra verso il mare, quel tutto che si distende ed estende. Ed è così che vorrei sentirmi.
Ma paradossalmente ottengo l’esatto opposto. La mia libertà a volte mi rinchiude e mi blocca. La mia libertà non mi fa piangere. Mi ha reso dura, forte, decisa. Tante belle conquiste… e poi?

Stanotte ho assaporato parole forti, che un tempo erano pugni allo stomaco. Mi ci ritrovo tutt’ora, le pronuncio urlando in uno stadio come se fossero fisiche, come se le masticassi o le leccassi. Ma non piango, non mi commuovo. Ripercorro il passato, e spunto nella mente tutte quelle situazioni cantate e che io ho superato. Mi sento arida, fredda. Vuota. Non ho nessuno a cui dedicare desideri nascosti, né da mandare a fanculo o da dimenticare. Non desidero alcun ritorno. Tutto è nello scatolone della mia vita precedente. Non ho più la sensazione di aver perso una parte di me, perché questa si è rigenerata come la coda di una lucertola. Canto e penso a tutte quelle vittorie, e alla mia fuga da qualsiasi sentimento.

Ed eccola lì, la verità. Inutile fingere. Io non sono pronta. Non sono pronta ad abbandonare ciò che sono, la mia roccaforte di sicurezza, determinazione, risate, progetti che riguardano solo me. Una roccaforte di curiosità, passione, disciplina. La voglia di imparare, di migliorarmi su tutto, di diventare. Una me che non vuole o non sa lasciare spazi vuoti.

A capo, riga, spazio bianco.

Per dare ritmo, per respirare.

Solo camminando o correndo la mia mente trova il suo spazio bianco. E l’ho capito soprattutto in queste due settimane senza sforzi, per via di una banalissima tendinite. Non tanto per la fatica del riposo, quanto per una frase emblematica detta da un’amica: “Se non sei iperattiva nel corpo, è iperattiva la mente; e viceversa”.

Non sono pronta perché devo sciogliere ciò che si è cementato dentro, ciò che si muove e borbotta con movimenti circolari. Non riesco ad accettare un sentimento perché sento di aver bisogno di dimostrare qualcosa. Perché non voglio accontentarmi, ma non è solo questo. Voglio dimostrare a chi e cosa? Con i miei viaggi, con le mie azioni forti, con la mia sincerità a volte sboccata cosa voglio dire? Che anche se sono timida non sono una “femminuccia”? Si tratta di una sensazione di confusione tra il maschile e il femminile che sono in me? Una ribellione disordinata e spastica ad alcuni stereotipi di genere nei quali non mi trovo? O perché la mia introversione o timidezza mi fanno apparire stupida? Respiro con fastidio una tendenza alle etichette, per cui non importa più se mi va di fare una cosa, perché tanto ci sarà sempre qualcuno che mi dirà che è di moda e sono conformista in ciò che scelgo. O ci sarà qualcuno che invece mi farà sentire un’aliena per alcune banalità, o perché accetto con fatica di possedere in me alcune caratteristiche femminili.

Uno, due, tre se conto Londra, quattro con il Cammino e cinque il Brasile che ancora deve venire. Cinque. Per sentirmi forte. Perché amo viaggiare. Perché la bellezza si auto alimenta e più lo faccio e più lo voglio fare. Perché da sola scopri particolari, vivi esperienza più forti e ogni elemento non è più vacanza, ma viaggio. La soddisfazione di organizzare, di averlo creato tu. Non è tanto ciò che visiti, ma come ti muovi a fare la differenza. E i momenti di felicità sono impensabili: un giorno di diluvio in Cambogia, un aereo interno viaggiando leggera tra Hanoi e Saigon e la guida che prende vita sotto la tua matita; quegli aneddoti che continuerai a ripetere per non dimenticarli mai. Ma c’è anche quella spinta là sotto. Lo sai che c’è. Dimostrare a te stessa di essere forte. Dimostrarlo agli altri. Al sesso maschile soprattutto. Forse a quel padre che vuoi stupire sempre, che vuoi non deludere, al quale vuoi dire che non c’è solo la tua timidezza, e che quella timidezza non è così una brutta roba. Sa essere bella, la stai accettando, ma non riesci a farlo del tutto fino a che non senti che quel legame con l’uomo per eccellenza si è ricomposto. Fiducia, accettazione, orgoglio. Semplicemente amore nelle nostre incolmabili diversità. Diversità di opinione, religione, politica, pensiero, ma stessi geni quando si tratta di quelle caratteristiche di personalità che fanno sorridere.

E poi ne hai ancora da scavare per scioglierti. Ci sono le blatte da affrontare: gli aspetti oscuri di te, quelli che ti fanno schifo, ma che ci sono. Quella cattiveria che sta lì, quell’egocentrismo che non ti fa vedere l’altro, quell’invidia che va analizzata e sminuzzata. Ho letto un libro sull’introversione: “Quiet” di Susan Cain. Mi ha aperto il mondo del mio narcisismo (mi piaccio e mi amo tantissimo eppure la maggior parte delle volte non mi accetto). E mi ha permesso – tra i mille spunti – di indagare i miei moti di invidia e quindi la mia ambizione, del tutto svincolata dal classico desiderio di diventare quadro in azienda, ma molto più vicino all’idea di fare un lavoro unico, creativo, cerebrale. Ma le schifezze sono ancora più profonde. Mi troveranno, si presenteranno. E le accetterò queste blatte.

Qualche notte fa ho sognato uno sconosciuto nel gesto di presentarsi e subito dopo un uomo che mi soffoca e si lamenta dei miei atteggiamenti ondeggianti, liberi e prepotenti. Ecco. La summa delle mie relazioni: amo il corteggiamento, la lusinga, il riempire alcuni vuoti, la parola piena di contenuto, ma è indispensabile che tutto ciò non ecceda la misura per non vedermi fuggire nella mia amata solitudine. E – forse – sto anche accettando di conoscere ciò che di me è sepolto.

Devi anche fare sì che nessuno si possa sentire in diritto di dirti che devi essere più o meno qualcosa. Non parlo di non accettare critiche costruttive. Sono convinta che serva circondarsi di Maestri.
Parlo invece di quella tendenza che hanno con te alcune persone. Dirti che prendi un gelato troppo calorico (quando hai appena fatto 30 km a piedi), dirti che dovresti parlare in pubblico, guidare l’auto, trovarti un uomo, essere più magra, più femminile, meno spacca coglioni, più socievole, lavorare di più, essere meno chiusa, più – meno – più – meno – più – meno – più – meno e sei sfinita. Perché non vai mai bene. Sei tu la più critica con te stessa e questo rende critici gli altri verso di te. Forse sei tu che – senza saperlo – dai questa autorizzazione? Tu permetti che ti dicano di mangiare di più o di meno, di ballare di più o di meno? Da dove inizia tutto ciò? Da dentro o da fuori? Dove sta la tua debolezza e perché ti ammazzi per colmarla? Quei viaggi per dimostrare che sei forte sono dentro di te. Vuoi urlarlo che sai stare sola, che sei capace di fare “tutto”. E sai bene che non è vero. E sai bene che nessuno ti vorrà meno bene per questo. O ti stimerà e ammirerà di meno.

Alla fine del concerto hai capito che quel nodo, quel grumo sta ancora lì. Ora lo sai. Sai che sei felice fuori e che lo sei dentro, ma solo per tre quarti. “Dopo un lungo inverno accettammo l’amore…”.
Non sono ancora pronta, ma amerò di nuovo, senza vergogna e senza paura. E sarà come quell’abbraccio che mi ha fatto piangere e sciogliere. Quello del fidanzato di un’amica, quello del perdono per uno schiaffo, quello che ha riportato la pace in tempo di lutto. Un abbraccio potente dal quale sono sgorgate lacrime liberatorie. Quel concetto di libertà cambierà, ti cambierà e non sarai mai più schiava di te stessa.

—-

C’è chi ha detto tutto ciò meglio di me:

Scivoli di nuovo
Conti ferito le cose che non sono andate come volevi
temendo sempre e solo di apparire peggiore
di ciò che sai realmente di essere.
Conti precisi per ricordare quanti sguardi hai evitato
e quante le parole che non hai pronunciato
per non rischiare di deludere.
La casa, l’intera giornata,
il viaggio che hai fatto per sentirti più sicuro
più vicino a te stesso,
ma non basta, non basta mai.

Scivoli di nuovo
e ancora come tu fossi una mattina
da vestire e da coprire
per non vergognarti
scivoli di nuovo e ancora
come se non aspettassi altro
che sorprendere le facce
distratte e troppo assenti
per capire i tuoi silenzi
c’è un mondo di intenti
dietro gli occhi trasparenti
che chiudi un po’.

Torni a sentire
gli spigoli di quel coraggio mancato
che rendono in un attimo
il tuo sguardo più basso
e i tuoi pensieri invisibili
torni a contare i giorni
che sapevi non ti sanno aspettare
hai chiuso troppe porte
per poterle riaprire
devi abbracciare
ciò che non hai più
La casa, i vestiti, la festa
ed il tuo sorriso trattenuto e dopo esploso
per volerti meno male,
ma non basta, non basta mai

Scivoli di nuovo
e ancora come tu fossi una mattina
da vestire e da coprire
per non vergognarti
scivoli di nuovo e ancora
come se non aspettassi altro
che sorprendere le facce
distratte e troppo assenti
per capire i tuoi silenzi
c’è un mondo di intenti
dietro gli occhi trasparenti
che chiudi un po’.

E non vuoi nessun errore
però vuoi vivere
perché chi non vive lascia
il segno del più grande errore.

Scivoli di nuovo
e ancora come tu fossi una mattina
da vestire e da coprire
per non vergognarti
scivoli di nuovo e ancora
come se non aspettassi altro
che sorprendere le facce
distratte e troppo assenti
per capire i tuoi silenzi
c’è un mondo di intenti
dietro gli occhi trasparenti
che chiudi un po’.
Che chiudo un po’.
Che chiudi…

E ancora …

L’Olimpiade
Casco e non mi arrendo
Riderai vincendo
E saprai che ciò che hai lo devi a te!

La fine
Io non lo so chi sono e mi spaventa scoprirlo,
Guardo il mio volto allo specchio
ma non saprei disegnarlo
Come ti parlo, parlo da sempre della mia stessa vita,
Non posso rifarlo e raccontarlo è una gran fatica.

Vorrei che fosse oggi, in un attimo già domani
Per reiniziare, per stravolgere tutti i miei piani,
Perchè sarà migliore e io sarò migliore
Come un bel film che lascia tutti senza parole.

Non mi sembra vero e non lo è mai sembrato
Facile, dolce perchè amaro come il passato
Tutto questo mi ha cambiato
E mi son fatto rubare forse gli anni migliori
Dalle mie paranoie e dai mille errori
Sono strano lo ammetto, e conto più di un difetto
Ma qualcuno lassù mi ha guardato e mi ha detto:
‘Io ti salvo stavolta, come l’ultima volta’.

Quante ne vorrei fare ma poi rimango fermo,
Guardo la vita in foto e già è arrivato un altro inverno,
Non cambio mai su questo mai, distruggo tutto sempre,
Se vi ho deluso chieder scusa non servirà a niente.

Il sole esiste per tutti
E trasceso il concetto di un errore
Ciò che universalmente tutti quanti a questo mondo
Chiamiamo amore

Blunotte  – Carmen Consoli
Forse non riuscirò
a darti il meglio
più volte hai trovato i miei sforzi inutili
forse non riuscirò
a darti il meglio
più volte hai trovato i miei gesti ridicoli
come se non bastasse
l’aver rinunciato a me stessa
come se non bastasse tutta la forza
del mio amore
e non ho fatto altro
che sentirmi sbagliata
ed ho cambiato tutto di me
perché non ero abbastanza
ed ho capito soltanto adesso
che avevi paura
forse non riuscirò
a darti il meglio
ma ho fatto i miei conti e ho scoperto
che non possiedo di più

Una sola direzione

stones-339254_1280Quando corro penso, per distrarmi dalla fatica.
Corro da pochissimo eppure mi sembra di averlo sempre fatto, corro perché sono finiti i corsi di ballo, perché camminare richiede troppe ore, corro per avere controllo di mente e corpo. Qualsiasi attività fisica di per sé va bene, per esercitare un’azione che non mi lasci alla deriva. Corpo e muscolo controllati, decisi, in attesa di essere scolpiti e portati fuori. Mente fluida e vasta che accoglie, depura, elabora e restituisce. Una tendinite mi sta obbligando a comprendere le mie esagerazioni, la mia indole insofferente, cosa significa la mancanza di un ordine, che solo l’attività fisica sa darmi. Grazie al controllo: posso, faccio, concludo. Il muscolo si muove, la mente lo segue. Il respiro unisce le due metà. Iniziare è l’azione più difficile, spesso una scintilla, altre volte un’occasione, una voce. Non sai mai da dove sia nata l’idea, ma sai che era lì. Nel mio caso lo yoga, il ballo, la camminata e ora la corsa. Erano lì, ad aspettare me e io li stavo cercando.

In uno di questi “pensieri da riordino”, che ti scombinano, sono caotici, confusi, vanno e vengono, ma sono bravissimi a “spazzettare e rassettare”, ho iniziato a pensare anche a loro. Gli uomini. Ma anche l’essere umano in sé. Le relazioni, ecco, sì. Quel rapporto di scambio dal quale a volte scappo. Se avessi davanti un uomo, quando fantastico, penso sempre a cosa gli racconterei di me, in perfetto stile Eleonora-centrico. Inizio così a definirmi, nel mio finto narrare a me stessa, senza un contesto. Una sorta di CV a ritmo di corsa e sudore – 1,2 – mi piace viaggiare, sì, sono stata in India, Asia… ma ho scoperto tardi questa capacità di adattarmi, anzi, questa esigenza – 1,2 – l’India, il battesimo… non ero sola, ma nemmeno con qualcuno… e così senza costrizioni racconterei la bellezza e l’unicità di quando mi sono trovata su un treno di terza classe notturno, verso Bengalore, mentre il mio compagno di viaggio Aloysius parlava tamil con sconosciuti. Ho provato sorpresa e ansia nel trovarmi in auto con una donna musulmana. Ha voluto portarmi da pizza Hut, in quanto italiana, e poi a casa sua a riposare e a mangiare (ho preferito il suo cibo indiano buonissimo, ma da pizza Hut mi sono commossa per il bagno e la carta igienica). Una famiglia composta da cattolici, induisti, musulmani. Una carezza e ho sentito le tensioni sciogliersi, la mia fiducia uscire da ogni poro – 1,2 – il respiro fluire libero in un sorriso. E parlerei di tutte queste chicche che ormai i più conoscono a memoria, degli incontri possibili perché sola, dell’uomo con l’ukulele a Saigon, della donna pazza e gentile a Chiang Mai. Mi definisco con uno zaino e pochissimo da portare con me, l’essenziale, se riesco. Mi piace cullarmi in questi ricordi, ripeterli, ripassare la lezione. Sono ancora pochi, sono embrionali… oppure mi tratteggio con le mie attività vecchie e abbandonate, o attuali e attive. Mi costruisco, mi identifico in un sé fatto di esperienze, immaginando un uomo al quale vorrei trasmettere la mia indole maschile, la mia natura ambivalente. La mia forza nella timidezza, la mia ribellione nella calma, la mia adrenalina nell’introversione: mi vedi insicura, silenziosa, quasi tranquilla? Eppure sono tenace, definita, senza fronzoli e orpelli. Sono lo stravolgimento di ciò che è femminile e maschile: dentro di me entrambi si mescolano, per non rispondere agli schemi sociali. E quando mi dicono che da sola non sempre va bene, mi chiedo perché dovrei sforzarmi di inseguire la socialità estrema a ogni costo. Necessito del mio silenzio, del mio fantasticare, del fingere di raccontare episodi piccoli e marginali. Ho bisogno di andare al cinema da sola, e di ridere con un’amica. Non vi è l’uno, senza l’altro. Non sopporto le chiacchiere vuote, ma amo i silenzi pieni, le parole intime, gli sguardi di complicità. Mi piacciono gli stimoli forti, anzi fortissimi: un concerto, l’adrenalina di un’impresa, la musica alta, la pista piena, l’uomo che ti guarda con quello sguardo lì, proprio quello. Arrossisco, ma non abbasso lo sguardo. E l’uomo che vorrei trovarmi davanti, a prescindere da tutto (quelle minuzie che ci fanno infatuare, i difetti che amiamo) dovrebbe condividere la mia visione interiore. Dovrebbe comprendere il mio lato maschile, esaltarlo quando serve. Dovrebbe usare il suo per placare il mio, con quella liberà che scorre ovunque, insieme all’appartenenza data da radici profonde. Vorrei poter dare questa me sicura a lui, e quella insicura la vorrei plasmare con lui. Vorrei dargli i miei segreti affinché li curi, li valorizzi, li consideri un’unicità in più. Vorrei accogliere le sue lamentele, i suoi vizi, i suoi punti deboli per farne un quadro di colori vivaci, vorrei giocare a braccio di ferro e perdere. La fiducia ci unirebbe, la libertà di fare non creerebbe assenza e mancanza, ma voglia.Vorrei essere un pezzo del mosaico che gli permetterà di realizzare uno qualsiasi dei suoi sogni, anche se questo comportasse il mio silenzio. Vorrei mostrargli ciò che non conosce e imparare con delicatezza. Vorrei condividere, ma senza possesso; amare, ma senza giudizio. Vorrei ridere, arrabbiarmi, farmi portare la spesa e indossare il rosa, rubargli le scarpe da running, camminare più di lui, ed essere più disordinata di lui, vorrei invertire ruoli inesistenti quando ne abbiamo voglia, e mai sentirmi chiedere o pretendere un “posso?”. Vorrei stare sola quando serve, e capire quando non è il caso di andarmene. Vorrei soffiargli il mio entusiasmo addosso e mostrargli la mia felicità per le piccole cose. Vorrei una bellezza che ti si stringe addosso, soggettiva e dipendente dai nostri occhi. Vorrei un cammino comune. Vorrei insulti e lacrime e una pelle che ti parla. E anche qualche scusa. Vorrei superare quella barriera, quella del sé, per diventare l’altro. Per diventare tutto. Sento di nuovo il sudore – 1,2 – 1,2 – sento le gambe, lo sforzo, i pensieri si vaporizzano. L’allenamento è quasi completato, mi vedo in ogni elemento naturale e canto come una matta mentre cammino verso casa. E sì, vorrei una sola direzione per due sguardi.

Bella, come non sono mai stata

brown-209106_1280Cos’è tutto quell’astio, quella blatta sulla cappa in cucina, quella pippa mentale che ti trasforma in una stronza con la tua migliore amica, cosa non tiri fuori? Sì, sono arrabbiata, anzi no, sono un moto tumultuoso e impetuoso di incazzatura, di nervi, di voglia di sbroccare. La percepisco come una rabbia iperattiva, utile, impaziente. Sono talmente felice per banalità, endorfine, progetti e conquiste che quasi di questa rabbia sembro non accorgermi. E invece eccola, ed è la mia estetista a chiedere conto della mia acidità. Lei. Le dico che voglio… essere io, che spinge e preme questo io, questo ego maledetto. Le dico che a volte preme così forte da farmi sentire imprigionata e impaziente. Ho una mezza ossessione per la scrittura che non si sfoga, come un orgasmo bloccato. Non è l’ossessione sterile del giornalismo che avevo anni fa, che quando ho iniziato davvero a scrivere mi ha lasciato quel vuoto tipico di un obbiettivo troppo desiderato, troppo atteso e insignificante nei risultati. No. È come un misto di paura, di pigrizia, di assenza di idee. Come quando non so cosa dire. E fatico e quella fatica mi lascia come se mi tappassero la bocca, mi togliessero l’uso della parola. E la fatica inibente mi innervosisce. Non è la fatica del muscolo, della corsa, della camminata. Non è la fatica buona. Sembra più un processo di rimescolamento di una massa troppo densa, così che quel cucchiaio resta intrappolato e invischiato. Come un elenco, come questo elenco pieno di frasi che iniziano per “E” e di paragoni che iniziano con il “come” e di parole ripetute. Ho anche quella voglia di prendermi la seconda laurea, in psicologia? Sì, probabile.Il libro sull’introversione che sto leggendo mi fa venire voglia di alzarmi in piedi sul treno e declamarlo, da quanto è vero. Ho la voglia di robetta che sappia di cultura umanistica. Ho la repulsione per la scienza nuda e cruda, non per il ragionamento e nemmeno per il metodo. Voglio rinascere, voglio avere una seconda – o anche terza – adolescenza, intesa come costruzione di me, della personalità, delle inclinazioni. Non posso rimpiangere a vita la mia vecchia strada, ma voglio urlare a tutti chi sono, chi scopro di essere, cosa amo, cosa non apprezzo, qual è il mio stile. Sperimento, ma mi conosco, e l’impazienza buona mi danza davanti. Vorrei dirlo ai miei familiari, chi sono. Come se fossi incinta di me stessa. Lei, l’estetista è lì, e dopo tutto questo vomitare, risistemandomi il viso e il corpo, mi chiede cosa non dico, cosa non tiro fuori, se sia qualcosa che riguarda ciò che accade in quello stanzino. O non accade. Riemerge di nuovo il nervoso, l’impotenza, la parlantina che si spezza. Ecco cosa non dico! Perché, non basta? Cosa non va in queste affermazioni pratiche e concrete? Dovrei scendere, scavare ancora, ma non posso o non riesco. Non vado oltre. Non raggiungo la profondità in cui si nascondono le blatte, non arrivo dentro di me così tanto. E non c’è nulla che non vada in quello stanzino, nulla. Anzi, forse proprio questo chiedere mi infastidisce. Mi piace quello stanzino, quella chaise longue colorata. Forse vorrei un aiuto in più: concreto, pratico, profondo. Per rimettermi in forma, bella come non sono mai stata.

Biglia meraviglia

ball-625908_1280La stanza è bianca: sopra, sotto, ai lati. Un cubo bianco candido di cui io sono il centro. Mi vedo in piedi, eretta nella postura, senza increspature o pieghe. Che poi ci penso e mi dico che, in fondo, non mi piace raddrizzare linee curve o eliminare con il ferro le grinze dei vestiti. Sono una che non stira, non ne sento la necessità, mentre adoro il rito della lavatrice, dello stendere, del riordinare di tanto in tanto quel caos rigoroso e del pulire superfici. La stanza, dicevo, è linda. Vorrei sapere cosa attendo, a occhi chiusi. Aspetta… sto sognando i miei genitori e mia nonna, sto facendo un turno in ambulanza, come una volta, ma ora sono impreparata. Mentre controllo con scrupolo il materiale, scopro che quel mezzo è pieno di quaderni e penne. Mi sposto ancora – nel sogno – mentre la mia figura resta immobile nella stanza bianca. Ora sto ballando, i miei genitori che mi guardano, poco dopo sono di nuovo in ufficio, in ambulanza, con mia nonna. Qualcuno mi urla “è finita”.

Ecco, è lì che si va, quando si sogna? In una stanza bianca nella scomodità di una postura eretta? Mi osservo ancora a lungo, percepisco la mente piena di biglie, di pensieri, di pezzi di un puzzle confuso. Le biglie sanno scivolare dalla mente al naso, dal naso alla gola. Dalla fossetta tra le clavicole – quella deliziosa parte all’apparenza sensuale – le biglie ritornano su verso la spalla, sostano e scendono al braccio che scrive. Escono trasformate in parole, dalle dita, dagli occhi, dalla fossetta, dalla nuca. Sono leggere. Si incastrano, a volte, si depositano quando sono ostili e non riescono a riemergere. Stanno lì, buone. La mia postura eretta persiste, nella stanza bianca e un po’ trasparente. Mi sento con un’occasione in tasca, una sorta di opportunità danzante davanti alle mie iridi intrise di sogni. Metto le mani sui fianchi, quasi a cercare quelle tasche piene di buone novelle. Non posso parlare, ma immagino creando fantasie. Prima c’è lo smarrimento, come quando dal medico hai la diagnosi: grave quanto basta per pensare in una frazione di secondo a tutto ciò che di negativo porterà nella tua vita quel verdetto. Poi, se la gravità è contenuta, subentra un sottile sollievo. Vedo un serpentello strisciare, sibilare, muoversi con fare furtivo. Sento che smuove qualcosa, riporta alla luce vecchi sogni e qualche speranza sgualcita. Forse… forse ora potrei, ora che porto sulla pelle la mia storia e i miei simboli, ora che voglio essere ciò che sono, liberarmi, essere la mia stessa voce, forse ora nell’imperfezione qualcosa si è mosso. Io? Mi guardo nella stanza bianca, eretta, immobile. le biglie impazzite che si spintonano dentro la mia testa per dissolversi attraverso un sorriso. Gli occhi si spalancano, la stanza acquista un color farfalla e ciò che era fermo ora si muove.

La sua eleganza

ballet-545289_1280Mariangela è bellissima, nei suoi 89 anni.

Quando arrivo, che sia in forma e seduta al tavolo con le altre due compagne di stanza, o che sia a letto febbricitante, lei è bella.

La luce che esce dai suoi occhi – complice anche quell’azzurro quasi trasparente – il sorriso e la cura che ha delle piccole cose sono le parti che compongono la sua figura: piccolina, rugosa, all’apparenza fragile.

Quando parla di funerale e morte, mi si inumidiscono gli occhi e le dico che senza di lei non posso proprio immaginarmi: quel breve momento del sabato è prezioso, ricco, unico, intenso. Mi piace vederla con il rossetto rosa delicato, le sopracciglia disegnate a matita. Mi piace quando dice che si sente amata, quando mi dispensa suggerimenti e consigli, quando mi permette di vedere la vita dopo averne vissuta una buona parte.

Entro da quella porta, ci assestiamo un attimo, ma si crea subito un filo magico, tra i miei occhi e i suoi, dal quale passa tutto ciò che ci accomuna e ci rende amiche. La visione della vita, le insicurezze, le ossessioni, le passioni. Tutto così vero, così misteriosamente incredibile. E si ricorda ciò che le dico, sempre. Non c’è vuoto di memoria che tenga.

Nossignore. Sa come mi sento e che settimana ho avuto ancora prima che io stessa riesca a comprenderlo. Oh e la sua ironia! Quanto è semplice e potente, questa ironia. Dice che le mie lettere sono come una medicina, lei – invece – è la mia medicina del sabato.

Balla, balla, finché puoi – mi dice – e io perdo le paranoie su capacità e bellezza. Ascolto lavoce di chi sa quali sono i rimpianti, quali le cose importanti, che comprende le inutilità di certi freni. E allora penso a lei e ballo, penso a lei e mi butto senza paura, penso a lei e mi chiedo: cosa mi direbbe?

Cosa direbbe a Ester, che ha l’ansia che le mangia lo stomaco e la sveglia nel cuore della notte senza motivo? Che ha l’ansia per l’ignoto quando questo decide di travestirsi in una delle sue molteplici forme come amore, sesso, lavoro? Cosa direbbe a Sara, quando traballante non capisce quale sia la sua strada, ma non sceglie, a causa di quella voglia di provare tutto, di quella terribile sofferenza che le procura la perdita di staminalità, o – detto altrimenti – la necessità di abbandonare qualcosa e perderlo? E a Daniele? Quando vorrebbe capire perché diamine si sia sposato e come fare per uscirne intero, lui, la moglie, forse un’altra – se c’è. Mariangela capirebbe anche Alice, quando ritorna adolescente e primaverile per uno sconosciuto, o quando ancora pensa di avere una parte da creare, plasmare e da mostrare. E accarezzerebbe delicatamente anche Giada, tutta frigorifero e disturbi.

Mariangela li contiene tutti, comprende ogni cosa nei suoi 89 anni, nella sua eleganza, nel suo tailleur giovanile. Me la immagino a teatro o per le mostre europee. La vedo stretta nel suo matrimonio, ma dura e tenace con tutti, la vedo orgogliosa del figlio, la vedo anoressica di sentimenti, schiva e bulimica di entusiasmi. La riconosco nei suoi silenzi, la ricostruisco dai pochi racconti e ricordi, le metto addosso un po’ di ciò che sono io e mi faccio regalare quel tanto che basta di lei.