Una storia di corna e leggerezza

typewriter-111407_1280La prossima volta glielo dico. Sì, ci ho pensato. Quella sua interpretazione proprio non mi va giù e forse gli dico anche che tutta questa autoreferenzialità mi indispone. Ok, ha ragione. Ho smesso di leggere un libro a settimana, narrativa per essere precisi. Ho smesso di concentrarmi, divago, progetto, fantastico. La musica di Spotify mi conduce in quei vicoli di coincidenze inventate pensando che siano quasi già vere. Sono stanca e voglio pensieri miei, parole mie, elaborazioni della mia mente. Voglio qualcosa che si muova. I libri sono statici e impongono immobilità al mio corpo. Ok, avrò anche piantato un libro complicatissimo a pagina 100 e qualcosa. Io non lo faccio, d’abitudine. Mi torturo, ma non abbandono. Non lascio ciò che inizio. Sono sicura? Non lascio ciò che mi piace, forse… Infinite Jest mi piaceva, L’arcobaleno della gravità al momento mi lascia un sottile disgusto. Cammino e la rabbia cresce. No, non è rabbia. Impotenza, sensazione di non essermi spiegata a dovere. Al posto di quel libro ora nella mia borsa c’è un manuale di scrittura. Racconto. Conflitto, voce, intreccio, trama… quella roba lì. Alla quale io tengo. Sprovvista di maestri, di direzioni, di frecce gialle, che altro potrei fare? Agire. Mi sembra il minimo. E lo faccio seguendo un’onda dettata da conoscenze che mi mostrano contatti che mi citano personaggi e libri di scrittura. Non posso sapere, almeno non con certezza, se possiedo o no quel granello di sabbia dal quale hanno ricostruito Fantàsia, sì, quelli là, quelli della Storia Infinita – Sebastian, Atreiu e il Fortuna Drago – ma posso esercitare. Cosa? O il nulla o quel granello. Quindi non significa che io desideri solo giocare, semplificare nel senso meno faticoso del termine. Mettere ordine, sì, certo. Non voglio solo le istruzioni, per alleggerire la mente da tomi difficili. Non è così che la vedo tutta questa storia di corna: ho tradito la narrativa e quel romanzo ostico con un manuale. Non l’ho fatto per avere una storia leggera e senza impegno o perché mi sto arrendendo alle difficoltà dell’introspezione. Mi sto impegnando. Voglio solo sapere come si fa e provarci seguendo quelle regole. Il romanzo è lì, i miei romanzi sono in attesa sulla mensola per quando arriverà il tempo maturo, mentre la mia voce o il mio corpo – quello vero – non possono più aspettare. Sì, glielo dico, forse con un tono duro. Un sasso incrocia la mia scarpa e schizza lontano. Alzo gli occhi prima di sbattere contro un passante, rallento e ripeto ogni parola nella mia testa. Eppure qualcosa mi sfugge… l’attesa, l’impazienza, l’inconsapevolezza.

Senza tetto

black-171116_1280«Non devono vederti, altrimenti non saranno più spontanei». Non aggiunse altro, bevve un sorso della sua bibita senza zucchero e mi fissò dritto negli occhi. «Vuoi farla, questa foto, o no?», mi istigò Simone. Mi girai in direzione del crocchio intravisto pochi minuti prima, mentre a passo sostenuto stavo raggiungendo quel mio amico, un po’ fotografo, un po’ artista. Non avevo nessuna intenzione di fotografare, ma pensai di raccontargli quella scena così calda, austera e melanconica, dopo averlo immaginato intento a posizionarsi e a riflettere, prima di scattare. Mi ero solo chiesta che foto ne sarebbe venuta fuori. «Devi usare lo smartphone, altrimenti ti vedono». Mi sorrise. Il mio imbarazzo era evidente, le labbra socchiuse, il colorito rossastro che sempre mi copre le guance. Io potevo solo raccontarla o scriverla – quella scena – emozionarmi e immaginare una foto o un quadro, ma mai mi sarei sentita capace di fermare ogni cosa. «Da quello che mi dici, credo che tu debba scattare in controluce, dal basso. Sovaesposta. Sai come si fa»? Niente, non riuscii a dire alcuna parola. Afferrai quel cellulare con tono di sfida, senza sapere nulla di ciò che avrei dovuto fare, e tornai sui miei passi con delicatezza, sperando che tutto si fosse dissolto. Invece erano lì, ancora, e stavano leggendo. Mi ci imbatto ogni mattina nei senza tetto della Stazione Centrale a Milano, sono sporchi, arruffati in coperte nere, grigi fuori e ovunque, come lo sono i gradini sui quali dormono, come lo è la loro casa. Ogni mattina sento una fitta di malessere, di pudore, di colpa. Quel giorno – uscita dall’ufficio in un orario insolito – il grigio uniforme lasciò spazio a un piccolo punto luminoso. Non avevano alcol, né bottiglie tra le mani, nemmeno un mozzicone raggrinzito di una qualche sigaretta fumata in precedenza da uno sconosciuto: avevano un libro. Non potei fare a meno di fissarli, ritornando con lo sguardo stupito e sorridente, dopo esserci passata sopra distratta. Erano tutti raccolti, saranno stati quattro o cinque: un piccolo cerchio di gente adulta, alcuni in piedi, altri seduti, sempre su quei maledetti gradini grigi, e al centro stava un uomo – dalla barba cresciuta a casaccio e dal pastrano informe – che reggeva un libro. Stava leggendo, lo stava sfogliando con una certa dose di rispetto. Allungai il collo per pochi secondi, per capire… arte? Storia? Intravidi quella copertina rigida, di quel marrone senape che ricorda l’oro, e sulle pagine candide notai molte foto uscire con prepotenza tra le righe fitte e nere. Non c’era tempo, decisi solo di godermi quella scena, di guardarla e leggerla, immaginando Simone in ginocchio che senza farsi vedere la catturava per me. Senza però porsi domande e ricevere spiegazioni, che pure io avrei voluto. Da dove arrivava quel libro? Perché lo stavano sfogliando? Cosa provavano? “Quante storie avevano in serbo quegli uomini e quanta dignità scivolava via come acqua su quei gradini sporchi”, pensai. In quel momento, accovacciata con il mio obiettivo, mi sembrò di rubare loro qualcosa. L’anima, si dice? Tentennai, ebbi la strana sensazione di poter ricevere una qualche delusione e così persi l’attimo. Simone vinse: non ero stata capace di fotografare. Avevo pensato a lui, avevo immaginato quella foto, ma alla fine – seguendo la mia natura – avevo preferito scriverla. Sempre in controluce.