Cosa se non la bellezza?

dandelion-411756_1280La bellezza genera stupore, gli oh e gli ah. Un classico, da bambini vivido e costante, da adulti più sfuggente. A volte apprezzo la decadenza. Dalla mia finestra si vede una piscina in disuso un tempo del Coni e la trovo eccitante. Le foglie autunnali, belle per natura, la accarezzano in più punti, lasciando liberi alcuni azzurri. La consapevolezza di ciò che era completa un quadro mentale nella mia testa. Decadente, immobile, inutilizzata e in balia degli eventi. Di ciò che sarà.

Quando lavorai a Lugano, la perfezione del Parco Ciani mi mandava in crisi suscitando una sorta di tristezza che risaliva dall’inconscio come da uno scarico otturato. Senza dubbio preferisco la decadenza all’ordine finto, quasi disumano.

Oggi sono andata a camminare e a un punto ben preciso della solita strada, necessaria, come ogni domenica, è partita la canzone sconosciuta “Guido piano”. Le foglie dai colori caldi sono scese, solo un paio non di più, e le parole si sono fatte bellezza e stupore. Io, un ponte e un fiume, camminare e il sole che mi abbracciava, come non fa più nessuno da tanto, se non quando ballo.

“ma c’è tanto sole
e mi accorgo che ne ho bisogno come un fiore,
e ho bisogno di stancarmi e di camminare
di sentire l’acqua, il vento e di respirare,
peccato che qui vicino non c’è il mare”.

Ripenso alle mie fughe continue e alle paure più profonde che mi scuotono, che vorrei raccontare. Le vorrei dire o vivere.

Sto divagando, come sempre. Ero partita con l’idea di parlare di ciò che ho vissuto ieri. Expo. Sì, non lo faccio mai: mai un giudizio, mai una recensione. Ma questa volta ci ho pensato. Riguarda un po’ la bellezza, il senso di solitudine del risveglio, dopo aver salutato mia sorella. Perché in fondo non sono andata sola ed eravamo così tanti là dentro. Eppure…

Allora, ho immaginato la premessa. Ecco. Diceva qualcosa come: non voglio ricadere nel gruppo sguaiato di chi dice che tutto è uno schifo, né negli entusiasti da doping. Sono la prima che non crede a chi affonda l’Italia con le critiche continue, la violenza, l’ignoranza, e la forza della repulsione per il proprio territorio. Sono la prima a nutrire uno sconsolato senso di distacco dalla propria regione e dall’italianità intima e densa. L’italiano medio è pessimo.

Denigrare l’Italia è uno sport che la indebolisce. Giudicarla continuamente la offende e di sicuro non fa fiorire le eccellenze. Tarpa le ali, affossa, soffoca, miete vittime. Vale ciò che provo quando faccio yoga: l’io non giudicante emerge e mi lascia finalmente in pace. Poi però non è che lo si debba uccidere! Deve restare quella scia costruttiva, benevola, che ti porta a fare le asana e a migliorare. E l’asana che non ti riesce ieri, eccola, oggi c’è. È tua. Senza violentarti.

Sono felice della Milano Bella, della sensazione di rinascita, del successo, della percezione che alla fine noi ce la facciamo sempre, in qualunque modo, e ce la facciamo bene. Ce la facciamo mettendoci del nostro. Per questo ero emozionata all’idea di andare a Expo l’ultimo giorno, con mia sorella. Sapevo che avrei visto troppo poco per farmi un’idea concreta e vera di ciò che c’era lì. Eppure un senso generale, un’impressione, una vocina, un giudizio sono emersi. Anche se parziali, imperfetti, opinabili e banali o addirittura ovvi.

Non ho provato stupore. Solo alcuni momenti davanti ai meravigliosi padiglioni, la vera bellezza comprensibile soprattutto a chi probabilmente ha fatto architettura o qualcosa di simile. Bellezza imperfetta, diversa, non troppo ordinata. La fantasia avvolgeva il Kuwait e l’alveare del Regno Unito, specchi, colori, acrobazie dei materiali che si avvolgevano e contorcevano. La rete del Brasile e quel caspita di Giappone che immaginavo imponente e invece era timido, poco urlato, si imponeva con un aspetto silenzioso. Ho sorriso con mia sorella quando ci siamo rese conto di aver toccato tutti i posti in cui siamo realmente state e ho goduto all’idea che non fossero poi così pochi.

Ho provato capogiri. Per la folla, chiaro. Per l’avanti e indietro senza scopo, senza una meta reale, senza un obiettivo comune e un traguardo, senza una sola direzione. Ai concerti non ho mai provato capogiri: siamo tutti lì per chi canta, chi si esibisce, chi ci trasmette qualcosa di comune nelle diversità. Ho provato fastidio per i prezzi da furto legalizzato, che forse un piccolo tetto si poteva mettere. Perché la nonnina che non andrà mai in Nepal avrebbe voluto assaggiare un piatto tipico, e non solo del Nepal. Magari lo stomaco non è così capiente, ma qualche assaggino nel corso della giornata su più paesi, la nonnina lo avrebbe anche sostenuto. Non il portafoglio.

Ho apprezzato il padiglione zero – con enormi riserve, ma non è la sede per esacerbarle – e quel giochino semplice di Slow Food su odori e tatto, per riconoscere i chiodi di garofano e i fagioli senza vederli. La rete del Brasile mi ha fatto sorridere e giocare per un po’, poco. Ho apprezzato gli odori quando arrivavano forti, il lavoro degli addetti in sei mesi di probabile maleducazione e di scarse gentilezze. Il supermercato del futuro mi ha colpito per quanto ci sia ancora da studiare e immaginare su ciò che è il consumo. Se si potesse unire anche a una risoluzione dello spreco (terribile) sarebbe una vittoria per l’umanità.

Ho sentito un giovane dire: «no, il Gambia non è un Paese, è un ristorante. Non è come il Kazakhstan». «Ah, allora andiamo!». Ho sentito chi non tollerava le file e chi stava in coda per le patatine del Belgio. Sì, è piaciuto. Sarebbe interessante capire a quale target, l’idea che ho in testa è nebulosa e ovviamente non scientifica.

Quello che ho cercato e che avrei voluto sono state le solite due cose, forse tre, di cui molti hanno parlato: il fare. Il visitatore che può fare è un visitatore che torna a casa più ricco di quando è entrato. Sentire una vocina in stile audio guida che mi spiega il ronzio delle api non è così indimenticabile, a meno che ciò non avvenga mettendo un bastoncino di legno tra i denti, infilandolo in una colonna e tappandosi le orecchie. Poi, il padiglione l’ho capito leggendo un articolo del Post, ma ciò è dovuto alla pigrizia media del visitatore. Non c’è tempo per leggere tutto, e lì, con le code e i miliardi di input non c’è modo perché ci sia tutta questa attenzione. Una suggestione, magari (e nel frattempo mi sono spiegata i capogiri e la sensazione di fastidio, di mal di mare. Tutti quegli stimoli. Troppi).

Dopo il fare viene l’imparare. Anzi stanno insieme. Vanno mano nella mano, si staccano, si ritrovano. La colpa è mia e della mia insofferenza, ma credo di essere uscita senza avere imparato molto. Alcuni padiglioni erano enti del turismo e fiera dell’artigianato (che se voglio, me la vado a vedere a dicembre), quello dell’Onu faceva riflettere, ma due spiegazioni in più le avrei messe. Più che quantità, direi qualità: concetti rapidi, veloci, semplici, immediati da vedere. Come? Se imparo facendo posso evitare qualche parola di troppo. Se poi imparo “insieme” forse è ancora più bello. Tantissimi e ciascuno per i fatti propri. Avrei avuto una scintilla negli occhi anche solo all’idea di un contatto, un incontro. Come quando viaggio. Un tizio brasiliano (quando si dice il caso) davanti a noi in coda ci ha chiesto dove potesse trovare una mappa. Ne avevamo due e ne abbiamo ceduta una. Nulla di che, mancava un quid per continuare, ma sarebbe stato così ricco e intenso “sfruttare” quei 20 milioni di diversità che hanno attraversato Expo da parte a parte.

Terzo: assaporare il tema. Permettere quella conoscenza attraverso i sapori, che è la migliore anche quando si viaggia. Mettersi dentro come persone e coinvolgere i visitatori nella conoscenza del proprio Paese, senza però diventare davvero un’agenzia viaggi. Scoprire quel tema così difficile: nutrire il pianeta santo cielo! Si passa dall’obesità alla morte per fame nel mondo, una contraddizione dolorosa che mi attanaglia. Come è stato sviscerato, riscoperto, approfondito? E non è retorica la domanda. Io ho visto un centesimo di Expo. E pertanto sono felicemente aperta a chiunque mi dica che era esattamente come io avrei voluto che fosse. Si sa che il cervello ricostruire un tutto a partire da un piccolo frammento: così ho fatto con Expo. Ditemi cosa non ho visto.

Infine, mi sono chiesta come si stabilisce il successo. Di Expo, ma a questo punto in generale nella vita. I numeri? I conti che tornano? Sono tornati i conti, poi? Oppure il successo è ciò che lascia nelle persone, la conoscenza di tutti che aumenta? O ancora l’organizzazione, la funzionalità, gli eventi, le parole spese, le azioni compiute?

Cosa se non la bellezza?

È

reflection-101005_640È vedere un cielo lattiginoso, con il sole che passa attraverso le barriere.
È sentire gratitudine per un paesaggio malinconico al ciglio dell’autostrada.
È passare accanto a una città e pensare a quanto sia bella,
è avere accanto i binari di una linea che non conosci. Proprio lì, attaccati alla tua strada, e oltre prati a dismisura. Quei binari che prima erano il Po, largo e placido, languido vestito di pioggia sottile, con il sole offuscato dalla nebbia leggera.
È osservare quelle pozzanghere nelle quali piove, quei cerchi concentrici nei quali metti il piede noncurante.
È vedere bellezza ovunque e senza tempo, senza il meteo nella mano, senza la lamentela pronta.
È sorridere per un’illusione e una fantasia.
È scrivere e immaginare di farlo, è ordinare e disordinare, è l’energia e il sonno, è dedicare due ore a un acquisto stupido.
È stupirsi e piangere, è deprimersi e godere.
È.