È

reflection-101005_640È vedere un cielo lattiginoso, con il sole che passa attraverso le barriere.
È sentire gratitudine per un paesaggio malinconico al ciglio dell’autostrada.
È passare accanto a una città e pensare a quanto sia bella,
è avere accanto i binari di una linea che non conosci. Proprio lì, attaccati alla tua strada, e oltre prati a dismisura. Quei binari che prima erano il Po, largo e placido, languido vestito di pioggia sottile, con il sole offuscato dalla nebbia leggera.
È osservare quelle pozzanghere nelle quali piove, quei cerchi concentrici nei quali metti il piede noncurante.
È vedere bellezza ovunque e senza tempo, senza il meteo nella mano, senza la lamentela pronta.
È sorridere per un’illusione e una fantasia.
È scrivere e immaginare di farlo, è ordinare e disordinare, è l’energia e il sonno, è dedicare due ore a un acquisto stupido.
È stupirsi e piangere, è deprimersi e godere.
È.

Io sono i tuoi occhi

10321199_10152516252745209_9028383616689016997_oAvevo appena suonato il campanello posizionato accanto a un portone solido e massiccio, di quelli di una volta, ma ancora lustro e dal fascino dei portoni pesanti. Non era grande, come la maggior parte delle strutture di Corso Garibaldi, ma si adeguava agli edifici storici del quartiere e per questo diventava imponente. Essendo tutto piccolo, o meglio compresso, porte e stanze sembravano immense, anche quando non lo erano. Nina mi stava aspettando per il solito tè del sabato pomeriggio e due chiacchiere con l’amica – la sottoscritta – conosciuta un anno fa, a pochi mesi dal mio trasferimento a Pavia. La Nina e io, come direbbero qui, con quell’articolo buffo e affettuoso che precede sempre ogni nome proprio, da un po’ di tempo stavamo in casa anche nelle giornate di sole, sebbene nel Corso e lungo Strada Nuova si riversasse la folla festante di pavesi, turisti, per lo più forestieri giunti qui per studiare. Quando si è soliti camminare nel fine settimana per il centro o lungo il Ticino, nel punto adorabile in cui si interseca con il Ponte Coperto, ai più sembra che Pavia sia la città della giovinezza, con tutti quegli studenti, il perpetuo sorridere e le maschere di trucco delle ragazzine. Il tramonto lascia una sorta di scia, quasi fosse la bava della lumaca, e te la senti appiccicata addosso ovunque. Pare una promessa del domani, che vedi comparire tra la corrente del fiume e le curve del ponte. I ragazzi si siedono sul parapetto con fare arrogante, chiassoso. Le fanciulle dal rossetto eccentrico, acquistato poco lontano a prezzo ridicolo, cercano di sembrare naturali e vissute, quando invece tremano di ansia e di quell’adrenalina adolescenziale che rende tutto emozionante. La Nina, ahimè, aveva invece appena compiuto 88 anni e di camminare non se lo poteva proprio più permettere, a causa di quella rovinosa caduta mentre attraversava l’acciottolato, dopo una visita fugace alla Chiesa di San Teodoro. Lo faceva da quasi trent’anni: una preghiera tra quelle navate era d’obbligo, almeno un paio di volte al mese. E non pensiate che io vada da Nina per solitudine o pietà: lei e io siamo così in sintonia che per quanto ci siano ben 56 anni di differenza, la considero un’amica preziosa.
È iniziato tutto per caso, durante uno dei miei “passeggi” alla scoperta di quella città che mi avrebbe con delicatezza – come una carezza sinuosa, ma senza alcuna volgarità – ammaliato tanto da tesserne le lodi ovunque. Un anno fa, dicevamo, Nina era in grado di mettere ancora il naso fuori casa, e in una di queste incursioni in un negozietto classico di frutta e verdura del Corso, di quelli semplici, abbiamo iniziato a chiacchierare senza nemmeno rendercene conto. Dapprima si trattava dei soliti convenevoli del sabato mattina, poi dall’abitudine – cosa strana se ci si pensa – si è passati alla curiosità e all’affetto. E chi meglio di lei poteva regalarmi qualche momento intimo di una città a me sconosciuta? Non avrebbero potuto farlo tutti gli amici forestieri e lavoratori di cui mi ero attorniata in breve tempo, nemmeno se fossero stati a Pavia da cinque o sette anni. Solo la Nina poteva parlarmi della vita da mondina, dei balli tra un lavoro e l’altro, della Necchi, la ditta più famosa della città, delle passeggiate con il marito lungo le vie del centro dopo il cinema, del Fraschini e della sua perenne eleganza. La chiamavano “la donna con il tailleur” e ne aveva sempre uno adatto all’occasione. Grazie a lei rivivevo le magie di una Pavia d’altri tempi. Io, invece, ero le sue gambe e i suoi occhi per vedere quella città moderna che ormai le era preclusa. Le raccontavo delle mie camminate riflessive lungo il Ticino, per tutto il parco fino alla casa sul fiume che una volta – mi diceva lei – era bellissima: c’erano le sdraio e gli ombrelloni e il baretto dove la gente chic beveva gazzosa. Consumavo strade e stradine a piedi per scoprire la città in ogni anfratto e lo facevo spronata da Nina: il mio primo gioiello è stato la Chiesa di San Michele, mentre la colazione in piazza Azzani aveva trasformato una mia domenica mattina da solitaria a ricca di vita e piacere. In quella Chiesa, raccontavo a una Nina incredula, ho trascorso il mio primo Natale pavese: “e non solo per la Messa. Ho proprio passato il 25
dicembre qui, nella cripta, con i poveri, le persone sole e i migranti”. “Cosa? Nella cripta? Hai pranzato in Chiesa, uh Signur”! Ma si vedeva che era felice di sentirmi parlare della sua città con tanto affetto. Le raccontavo anche di qualche sparuto pellegrino, che salutavo sempre con ospitalità. Se ne incontravano di tanto in tanto sulla parte di Via Francigena che attraversa Pavia: in molti hanno lasciato che si depositasse silenziosa tra le bellezze da dimenticare. Per il giorno del suo compleanno avevo deciso di farle una sorpresa. Volevo assecondare il suo desiderio più grande: rivivere la festa del Ticino come un tempo, in tutto il suo splendore. Per quel giorno avevo scelto per Nina l’abito più bello, chiamato una parrucchiera che sapeva cosa fare, contattato suo figlio affinché partecipasse. Per quel giorno volevo portarla anche alla Chiesa di Santa Maria in Betlem, in Borgo Ticino, dove Nina aveva vissuto momenti della sua giovinezza. Ricordo ancora quel sorriso nostalgico e doloroso, quella sensazione di saggezza e memoria storica mista alla consapevolezza della fine di qualcosa, che ancora non sapeva afferrare bene. Tutto le era familiare e al tempo stesso sconosciuto. Le sue due ruote procedevano lente, con la pazienza di chi non ha alcuna fretta né vuole scansarsi di fronte alla folla e io la guidavo parlandole sottovoce all’orecchio ancora buono. Le bancarelle sul ponte erano l’ultima tappa, poi si tornava a casa. Non mi aveva ringraziato in quel momento, per orgoglio, ma lo ha fatto a ogni appuntamento successivo. E anche quel giorno, davanti a quel campanello di un portone troppo massiccio, sapevo che Nina mi avrebbe raccontato altri segreti di Pavia e della sua gioventù, e io a margine le avrei detto che la sua città, portandomi sole (e non solo umidità e zanzare), luci, cultura e amici, mi aveva proprio salvato la vita.

Per il concorso: “Pavia, viverla per raccontarla”