Linee parallele

Si scostò da lui e scese da quel treno, di sicuro non l’avrebbe mai più rivista. A meno che – iniziò a fantasticare Marco – non fosse solita prendere quello delle 19.45 per Genova, “sì, sempre dal binario quattro. Ma strano, l’avrei notata anche prima”. Il folto gruppo dei pendolari forse avrebbe potuto nascondere quel viso. Marco da un anno e qualche mese non mancava un appuntamento con quel convoglio, forse un paio di volte per un raffreddore, e ad agosto per le ferie. Ma in quell’anno la terapia era regolare e costante. La visita iniziava alle 18.30 e finiva giusto in tempo per rientrare con i lavoratori instancabili. Arrivava al suo binario stravolto, confuso, a volte rabbioso o di una felicità pura. Il suo terapeuta, una donna, aveva un ruolo fondamentale nel determinare il suo stato d’animo al binario quattro di ogni mercoledì. Quella sera la calma e la lentezza lo avevano accompagnato per ogni singolo movimento delle gambe, delle palpebre, delle mani. Si accomodò sulla fredda panchina di metallo, in attesa, in anticipo per il treno successivo, in ritardo per i vagoni appena partiti. Lo zaino stava tra le gambe, la giacca verde scuro lo copriva fino al naso e i piedi erano comodamente stipati in scarponi pesanti, quasi da trekking. Chissà perché, poi, aveva optato per quelle scarpe per recarsi a Milano. Macinava pensieri quando si avvicinò una donna che aveva tutta l’aria di essere appena stata in un luogo teso, stressante, cupo e insidioso. Un ufficio, forse, ma non un bell’ufficio. Sembrava più l’espressione di chi è appena stato in ospedale, in un obitorio, o di chi lavora con un aguzzino. I capelli arruffati e trascurati, con il colore stinto, la rendevano ancora più aliena dal mondo delle belle donne in tacco e tailleur in attesa, come loro, del treno. Eppure se ne invaghì quasi immediatamente. Non fu un’emozione forte o violenta, quanto una lieve carezza: provò un’inarrivabile dolcezza nell’osservare quei lineamenti morbidi, quel sorriso appena accennato e anche le sue occhiaie così pronunciate suscitarono in lui la voglia di abbracciarla. Senza alcun sospetto, la donna si andò a sedere accanto a lui. Frugò rapidamente nell’enorme borsa e dopo qualche secondo lui la vide mentre osservava il cellulare, facendo scorrere veloci immagini e parole. L’uomo dietro di lei si alzò per andarsene poco più in là, forse con l’intento di sgranchirsi le gambe o di scaldarsi camminando un po’. Quell’uomo portò con sé anche la sua sigaretta, il suo odore di tabacco e fumo, e quella nube densa e impalpabile che circonda i fumatori. «Meno male che se n’è andato. Faceva una puzza …». Marco non si aspettava di sentire la sua voce. Quella donna aveva parlato, rivolgendosi a lui. Rimase sorpreso, senza il tempo necessario per registrare il messaggio, comprenderlo e rispondere a tono. “Quale puzza?” Si stava chiedendo Marco tra sé e sé. «Puzza di sigaretta, mi dà proprio fastidio», come se avesse indovinato il suo pensiero. Respirò, e mentre entrambi tirarono fuori ciascuno il proprio libro da zaino e borsa, le disse solo di non aver sentito alcun odore, ma lui aveva smesso, qualche anno fa. Nessun fastidio. Avrebbe forse voluto dire altro, di più, ma cosa? La guardò a lungo, mentre leggeva Alice Munro, chiuse la copertina del suo romanzo di Ken Follett, pensando a quanto i gusti della giovane fossero più delicati: ricordavano lo sbattere d’ali di una farfalla. Quella donna faceva pensare al movimento soffice di un uccello piccolo e lieve in volo, mentre lentamente e con quel rumore di aria sferzata, sbatte le ali. Sì, quella donna era il suono di un fendente. Di una racchetta da tennis o di un bastone di arti marziali. Il suo stupore era accentuato dall’argomento – il solo – al quale si era fatto accenno nelle poche parole scambiate su quel binario. La terapia appena conclusa aveva toccato il tema del fumo per circa quaranta minuti. Aveva solo sognato di ricominciare, ma fugando ogni intenzione al risveglio, nulla di paragonabile a Zeno e alla sua coscienza, ma con due date precise in testa: 4 aprile e 14 luglio. Inizio e fine. Quindici e ventisette anni. Si era distratto con questi pensieri, quando il trenò annuncio il suo arrivo con il solito sferragliare, fischiare e stridere, in questo preciso ordine. La donna se ne andò, lui la raggiunse, lei si sedette, lui rimase in piedi fino a quando lei scese alla prima stazione lasciando a lui quel posto vuoto. Si erano rincorsi come onde, sfiorandosi solo in una frazione di secondo. “Avrei potuto dirle arrivederci”, pensò Marco. Ormai era tardi. Un’onda era arrivata alla spiaggia, l’altra era ancora lontana, persa nei suoi pensieri di fumo e lettini freudiani. Pensò allora che la bellezza di quel momento avesse senso proprio nel mistero, nella coincidenza di una sigaretta e in un battito d’ali scomposto di una donna stanca.

Ciò che lo riempie

Non ho paura del vuoto. Ho paura di ciò che lo riempie.
Ho paura di quei dolcetti al cioccolato, che vorrei non tornassero più.
Ho paura della nicotina, abbandonata da cinque anni.
Ho paura di ciò che ha riempito il vuoto e di ciò che lo riempie ora.
Ho paura della prossima dipendenza, dell’assuefazione, dell’ancora e ancora.
La sensualità di un passo di salsa, il sussulto per una presa riuscita, l’eccitazione chimica del contatto. Ho paura di averne bisogno.
Ho paura della camminata nel parco, dell’energia del movimento, della bellezza che ti entra nel cuore attraverso gli occhi.
Ho paura di non poter fare a meno di qualcosa, di tante cose: dell’anziana in istituto, dell’ambulanza, dei corsi, degli amici, della spinta e della novità.
Temo ciò che riempie il vuoto, effimero, caduco, instabile e impermanente.
Cosa ne sarà della sensazione di astinenza quando non avrò tempo per camminare o non ci sarà qualcuno con cui ballare?
Come la sigaretta che si accende, non calma i nervi, ma riempie un’astinenza,
così ogni attività e persona non placano l’inquietudine,
ma riempiono un vuoto che loro stesse creano,
che esiste perché io inizio.