È morto il proprietario di un piccolo supermercato di provincia, una catena. Ha cambiato nome così tante volte che nemmeno li ricordo tutti. Era piccolo, ma ben fornito e tenuto benissimo. Ci potevi trovare tutto, e credo che abbia servito generazioni di abitanti di paese, prima dell’arrivo dei centri commerciali e degli Iper. Mi secca quando senti: è venuto a mancare, è scomparso ecc… Perché? La morte non si può dire? È morto ed è la sola parola che si possa utilizzare. Non posso dire di averlo conosciuto, ma se ne parlo è perché qualcosa mi ha colpito. Per la prima volta un lutto di paese mi tocca, me ne dispiaccio con sincerità. Escludendo persone conosciute, intendo, non sono di certo così fredda. Leggo la notizia al volo su un whatsapp di mia madre, esclamo “oh no” in modo spontaneo e mi fermo ripensando all’India. Non era giovane, ma nemmeno vecchio. Non saprei dire l’età, so che aveva qualche problema di salute. Conosco nome e cognome, la moglie con cui ha diviso la sua vita. Non aveva figli, ma una nipote morta di tumore. Non lo conoscevo ed era quasi il mio vicino di casa. L’interazione con lui passò attraverso l’India ed è ciò che di lui rende i contorni più netti. Nel 2011 la mia decisione di fare un’esperienza di volontariato lontana si scontrò e incontrò con quel vicino di casa. Sempre un messaggino di mia madre, se non ricordo male, per dirmi che lui aveva fondato una scuola in India in memoria della nipote. Quando gli ingranaggi si mettono in moto, penso che sia difficile fermarli e arrestarli. Una sorta di domino che arriva alla fine. Non voglio fare la fatalista, perché credo nell’azione e nelle scelte, ma ho sperimentato la forza di ciò che “deve” succedere, qualcosa che ha tutta l’aria di essere pronto e maturo per te. Tu hai agito, hai scelto e quella scelta ti sta addosso come un vestito su misura, come se te lo avessero dipinto addosso. Ecco, quello non fu l’India. C’era scritto “sono acerba, non forzare la mano” in ogni passo: non avevo soldi, non ero abbastanza in orario, ho persino trovato l’Asl piena per le vaccinazioni, ho avuto problemi con passaporto e visti, e persino qualche inconveniente con l’agenzia di viaggi che ha prenotato il mio volo, ho dimenticato a casa la tachipirina e ho avuto la febbre. Ricordo ancora quando per un attimo pensai di dover viaggiare con Aeroflot. Prima, però, parlai con quell’uomo, il fondatore, che mi trasmise – vado a memoria e qualcosa posso essermelo ricostruito dopo, di fantasia – la bellezza, la magia, la necessità, la verità racchiuse nelle terre indiane. Conobbi Giovanna, grazie a lui, così da potermi confrontare con un’altra volontaria. La convinzione montava e saliva, nonostante tutti i problemi, e rimasi testarda fino in fondo. In India ci andai. Fu acerba? Sì, un po’ sì, ma era ciò di cui avevo bisogno. Fu come quella nuotata in acque profonde quando tentenni e hai paura. Non credo di poterla chiamare davvero esperienza di volontariato, ma in quel nulla indiano – in quel villaggio di quattro anime dove si inauguravano con feste i bagni dentro casa o la costruzione di una doccia – posso mettere un paletto che divide “prima” e “dopo”. Quasi quanto lo fu l’Erasmus, per motivi diversi, a 21 anni, anche l’India fu un confine narrativo nella mia vita. Sì, l’India – quella che io ho vissuto – è vera, necessaria, magica.
Lo stupore per quella morte è stato incalzato dall’amaro delle relazioni. Non ci si conosce. Per nulla. Ciò che mi ha proprio spinto a scrivere più di quanto già volessi fare è stato un altro whatsapp, una nota vocale, dove nemmeno puoi fermare eventuali incomprensioni prima del degenero. Una malinconica disamina della vita di quell’uomo, immaginato chiuso dentro il suo supermercato, senza uscire, senza ferie, senza godere e vedere il mondo: questo mi ha recitato come una litania la mia amica. E avrebbe avuto anche ragione a esprimersi così, con rammarico e tristezza profonda, se tutto ciò fosse stato vero. E invece quest’uomo sconosciuto andava in India non appena poteva e trascorreva i mesi in quel villaggio. E credo l’abbia anche visitata, a modo suo, quella terra. Sì, certo, non so quante altre ferie si sia mai fatto né che vita possa aver avuto: alternava le casse, le corsie, i pelati e i surgelati nonché 8000 abitanti che non sapevano chi fosse, con i colori, le spezie, i pentoloni all’aperto, la doccia con il secchio, la polvere, la terra, gli odori non programmati e tanti bambini e famiglie che lo conoscevano benissimo, anzi, gli erano grati. M’immagino, senza averlo mai visto, gli inviti e le cene da quelle famiglie. I sorrisi. “In India mi passa qualsiasi acciacco”, ricordo che lo disse e ricordo di aver pensato: quanto è vitale quest’uomo che all’apparenza sembra un fantasma. Ditemi voi, ora, dov’è il vero? Lui è morto e secondo me ha scelto l’India.