Celebrare un momento mancato

– Guarda che in Cina è un casino.
– Sì, in Cina.
– Cerca di informarti bene, prima di partire.
– Papà, vado in Africa… mi sembra da tutt’altra parte, no?
– Sì, ma se arriva…
– Se arriva esattamente dove devo andare io, cambio meta, non ho vincoli.
– Sì, perché in Cina hanno chiuso: proprio chiuso.
– Ho visto, tengo monitorato.
– Ecco, mi raccomando.
– Non chiuderanno mica tutto! Sceglierò un Paese dove posso andare, no? Il mondo è grande!

Questa conversazione – che forse aveva parole diverse ma lo stesso senso – si è scolpita in testa come se avessi una tipografia con le lettere in metallo direttamente nel cervello. Se le cose fossero andate diversamente, me la sarei dimenticata di sicuro, chi può dirlo? Avrei magari sorriso. Ma le cose sono andate come mai e poi mai la mia mente avrebbe potuto immaginare: non voleva immaginarlo? Non ne aveva gli strumenti? Non importa. Hanno chiuso tutto, anzi hanno chiuso l’Italia per prima. Ai tempi di questa conversazione era ancora gennaio, dovevo ancora andare in Burkina – non avevo ancora spostato meta né data – avevo come sveglia la canzone Buon Viaggio di Cremonini, che è una cazzata ma che ci stava bene e con quelle parole andavo a correre. A quest’ora cazzo se sarei stata agitata! Sarei stata isterica, a casa dei miei dal 20 marzo, avrei comprato uno zaino della Decathlon da 50 o 70 litri – ero indecisa – ché il mio viola è ormai da mandare in pensione, avrei cercato un pc portatile leggero ma resistente mettendoci ore e sarei andata in quel negozio consigliato dalla mia insegnante di fotografia per acquistare un obiettivo usato stando attenta alle cifre e ai conti ché una cena fuori o un acquisto troppo caro erano ai miei occhi un taxi in caso di bisogno, un ostello se non avessi trovato la scuola, la fattoria, l’ospitalità in cambio di lavoro – che poi avevo capito che non so fare quasi un cazzo – avrei ascoltato le canzoni di chi parte, avrei tormentato con messaggi di ansia sia Mara sia Valentina, sarei stata isterica, con lo zaino fatto e rifatto quasi mille volte. Pesa troppo, non posso non portare questo e quello, Ele ma che cazzo di idee ti vengono?

Avrei salutato Pavia sapendo che probabilmente non ci sarei tornata più o quasi. Avrei salutato Silvia. Avrei salutato. Avrei litigato di sicuro con i miei per una convivenza non abituale. Avrei chiesto a chiunque di leggermi le carte e avrei consultato oroscopi. Avrei perso il fuoco della faccenda per poi ritornarci sopra. La notte prima della partenza non avrei chiuso occhio. Non so tutto quello che avrei dovuto fare in questi giorni, ma so che a febbraio dicevo a Valentina: io quel giorno impazzirò! Sono agitata adesso, figuriamoci il 15 aprile, come sarò messa! Respira, mi avrebbe scritto Mara e avrei pianto nel salutarla, quasi di sicuro. Avevo scelto il 16 aprile per scaramanzia: mi sono laureata quel giorno, alla specialistica. Mi sono laureata anche il 16 dicembre. Abitavo al civico numero 16 e il 16 febbraio 2017 ho iniziato a lavorare nel posto che ora ho lasciato e che è stato il solo luogo lavorativo che abbia saputo riappacificarmi con l’ufficio, con colleghi, capi, con Milano, con l’agenzia di comunicazione, con il marketing, con l’appartenenza ma soprattutto con me stessa.

Avrei salutato i colleghi di persona, magari ci scappava un aperitivo al Magentino, forse, e avrei salutato il figlio di Laura andando a caccia di nutrie. Invece ai colleghi ho mandato una mail – una mail lunga e forse pure un po’ melensa come solo io posso fare – e con il team ci siamo salutati con 4 schermi sul pc. Avrei fatto scalo a Bruxelles e alle 16 sarei arrivata ad Accra – alle 16, buffo! – poi era tutto ignoto. Sarei stata nella capitale? Sarei andata subito a N.? Non lo so, lo avrei deciso dopo il 20 marzo, probabilmente. Il mio compleanno, il 14 giugno, sarebbe stato in Ghana, magari vicino a un altro giorno di passaggio verso un altro Stato, forse, chi può dirlo. IO A QUEST’ORA SAREI STATA ECCITATA, ELETTRICA, EUFORICA. LO SAREI STATA PER TUTTO MARZO: AGITATA DA DOVER CORRERE PER PIÙ DEI SOLITI 10 KM ALLA VOLTA.

Avrei abbracciato i miei all’aeroporto, forse mia sorella si sarebbe presa un giorno di ferie per accompagnarmi anche lei. Avrei urlato la mia felicità a chiunque – ma anche la mia ansia, diversa da quella attuale, ovviamente – e mi sarei calmata nel tempo, entrando in un flusso che conosco, in parte. Sarei stata confusionaria, imprecisa, sarei arrivata all’ultimo momento con tutto, con il visto forse, non con le vaccinazioni: quelle le ho qui, in frigo: colera e tifo. La febbre gialla è un libretto che devo sempre portare con me, che dice che sì, sono coperta. Sarei impazzita per trovare un’assicurazione sanitaria decente, per un anno, per più paesi così diversi e senza sapere nemmeno quali. Avrei avuto la residenza dai miei: anzi quella ormai è là. A settembre mi scade l’abbonamento a workaway, ma magari allora di settembre avrei avuto i miei contatti e nessun bisogno di usare quella piattaforma. I pensieri si sarebbero accavallati e io – refrattaria alle to do list – sarei morta di cose da fare, non fatte, urgenze che avrebbero potuto non esserlo e magari mi sarei pure arrabbiata o disperata e ora – ora – se ci penso sorrido, ché alla fine sarebbero state solo cose bellissime. Sarebbe stato il mio momento e lo avrei saputo perfettamente. Lo avrei saputo come si sa una cosa che si aspetta e che a modo mio ho costruito, anche se non sembra o non si vede. Lo avrei saputo come sapevo che sarebbe successo, da quando nel 2015 due donne incontrandomi in Brasile a Ilha Grande mi chiesero: come ti immagini tra 5 anni? E io, in modo naive, ho risposto: viaggiando e scrivendo.
Ero già in viaggio.
Come quando in Tanzania nel 2017 ho incontrato una coppia che stava viaggiando da un anno e io mi sono sentita come se fossi già loro, già in viaggio.
Già in viaggio. Ferma ma in viaggio ci sono comunque e ci siamo tutti. Devo solo chiudere una mappa e aprirne un’altra, pensando che comunque sarà altrettanto ignoto, sarà un cambiamento – diverso ma dovrò comunque cambiare ogni cosa – sarà un nuovo inizio e un nuovo ciclo in attesa che si possa acquistare nuovamente un biglietto aereo di sola andata (l’emozione che si prova pigiando quel tasto è infinita: credo di aver lanciato un urlo quella sera).

Potrei scegliere una città a caso qualsiasi, in Italia. Una che mi piace o che vorrei conoscere.

La parte difficile – ovviamente – sarà il lavoro, che comunque ripartirà: eccome se ripartirà e qualsiasi esperienza andrà bene, davvero. A volte penso di sentirmi addirittura più protetta in questa sospensione e che le cose si faranno complesse quando davvero avrò davanti decisioni da prendere, ma anche tante variabili che non dipendono da me.

Ho scelto tre carte, recentemente: l’appeso per “come mi sento/dove sono oggi”, la ruota per “dove vorrei arrivare” e la papessa per “come ci arrivi”. Erano carte scoperte, ma non le conoscevo: mi sono lasciata ispirare dai colori e dalle forme. La ruota era disegnata come se fosse d’acqua ed è così che vorrei essere: fluida. La papessa mi sembrava un mondo con tante strade ed è così che vorrei arrivarci: camminandoci sopra.

Oggi sarebbe stata la mia notte, il mio giorno l’indomani. Forse le carte sarebbero state altre. Non avrei chiuso occhio, come per ogni sacrosanta vigilia. Il mio zaino chiuso e pronto mi avrebbe guardato, in attesa vicino all’ingresso. Avrei fatto come sulle montagne russe o prima di un tuffo dagli scogli.

La Fortunata

Cimitero di Mentone

Gli ombrelli neri si sfiorano, senza scontrarsi: la gente è immobile o prosegue con calma, seguendo il ritmo della processione. Si sente solo il rumore quasi metallico dei passi sulla ghiaia e sul selciato; i tacchi sull’asfalto o sul pavimento della Chiesa, che non era ancora stato pulito, quella mattina. La predica era stata breve e incisiva, le donne si erano sedute a destra e gli uomini a sinistra. In Chiesa c’era tutto il paese, mentre al cimitero arriva solo una manciata di persone, una dozzina forse: tra cui il pescivendolo, il macellaio, l’edicolante, la parrucchiera, il vecchio curato in pensione e una badante di origini ignote, forse dell’Est. Il vecchio curato sospira, reggendosi al braccio della perpetua Isolina: in Paese si dice che siano stati amanti.

Così come di Cosima – la defunta, sulla quale in quel momento il nuovo parroco traccia una croce con le dita, in aria – si dice che fu pazza a causa di un segreto.

“Non parlava da anni, sai?”, “anni? Io non l’ho mai sentita proferire parola: e vivo qui da che sono nato”. “Stava con la nipote, ma poi… l’ha fatta impazzire”. “Pazza? Altro che pazza! Ve lo dico io: quella era furba. Vi immaginate: senza famiglia, senza vincoli e senza doveri. Bella la vita, eh? E la chiamate pure pazza!”.

Il macellaio chiude l’ombrello per primo, dopo aver scosso a lungo la sua testa pelata, senza nemmeno guardarsi intorno.

“La nipote? Dov’è la nipote?”, chiede il curato in un sussurro. Non c’è, dicono che sia scappata per il silenzio, commenta la badante, aggiustando il ciuffo di capelli biondi appena messi in piega. Il gruppetto esce compatto dal cancello, prima di dare il tempo al custode di stordirli di chiacchiere con i soliti pettegolezzi noti a tutti. Qualcuno ha messo qualche fiore alle vetrine del negozio di Cosima, altri si sono accomodati al bar in piazza, l’unico del paese, con i mobili di legno degli anni ’60 e i pensionati seduti nel loro angolino. “Che prendete?”, chiede Giacomo, il barista, sorridendo per quella strana combriccola. D’improvviso, prima che Giacomo potesse ricevere risposta, la porta del locale si spalanca e sbatte alle spalle di una ragazza di circa ventidue, ventitré anni, con un capello rosso come le guance e lunghi capelli biondi, morbidi sulle spalle. È lei, si capisce dallo sguardo: la nipote di Cosima. La stessa che era comparsa cinque anni fa dal nulla e nel nulla era ritornata dopo tre anni di convivenza con sua nonna. Si avvicina al bancone, chiede una birra alla spina e rivolgendosi al macellaio: “Come è morta?”, chiede. “Da sola, nella sua poltrona. L’ha trovata la vicina. Anzi no: i carabinieri, prima, in un certo senso”. “Era… morta da tanto?”. Nessuno risponde. “Non c’eri, in Chiesa”, commenta la badante – che poi non fa più la badante da quando il signor Orazio è morto: vive dei soldi che lui le ha lasciato – e cade di nuovo il silenzio. “Leda, mi chiamo Leda”, dice la nipote. “Vorrei scrivere qualcosa su mia nonna. Voglio che si sappia, che vita, che vita ha fatto”. Silenzio. “C’è un giornale? Della parrocchia o del comune? Intendo dire: dove poter pubblicare, ecco, queste righe…?”. “Dallo a me: posso portarlo al direttore del giornale del parroco: non è granché, ma lo leggono tutti”, la parrucchiera è in piedi, con la mano tesa verso quel foglio di carta così sgualcito da sembrare sul punto di sgretolarsi o rendersi illeggibile solo guardandolo. “Leda è un bel nome”, sorride la parrucchiera afferrando il foglio. Leda beve la birra, tira su col naso e anche quella volta così com’è venuta decide di andarsene. La combriccola grigio-nera si accalca intorno alla parrucchiera che infila velocemente il bottino nel reggiseno, afferra borsa e giacca e divincolandosi da tutti esce di corsa dal bar di Giacomo, urlando: “pago domani!”.

I poveri cittadini aspettano ben due settimane prima di riuscire a leggere le due righe di Leda stampate senza foto a pagina tre del giornalino del prete.

“Mia nonna Cosima era nota in paese per essere strana: restava per giorni a presidiare il suo negozio, senza mai uscire. Si lavava poco. Indossava sempre lo stesso cappotto rosso d’inverno, lo stesso smanicato a fiori d’estate. Quando la vedevate camminare a passo svelto avanti e indietro dalla via principale, voleva dire che le era arrivata una lettera da sua figlia: non ho mai capito se mia madre odiasse Cosima o l’amasse. Non parlava Cosima, pur avendo vissuto e servito al suo negozio quasi tutti voi per trent’anni. Non ha mai parlato nemmeno con me: perché non sapeva farlo. Quando arrivai qui, lo feci per vedere davvero cosa fosse diventata mia nonna, per capire se mia madre mi raccontava fatti o stupidate dettate dalla rabbia. Cosima non sapeva parlare, non le era mai stato permesso di parlare. Si sposò giovanissima con un certo Dante, conosciuto dai suoi e apprezzato nel suo paese d’origine per l’attitudine al commercio delle stoffe e al polso duro con i dipendenti. Era ricco e affascinante: tutte le famiglie con figlie di sedici anni gli aprivano le porte, gli facevano sconti in negozio, lo servivano come si fa con un padrone. Tra tutte, lui scelse Cosima.

Se prima del matrimonio, mia nonna era comunque stata educata alla sottomissione, con Dante le cose peggiorarono: non poteva uscire di casa, nemmeno per far compere, non poteva parlare se non per dare ordini alle domestiche o informazioni essenziali al marito, non poteva leggere se non le riviste che Dante stesso le portava a casa, non poteva vedere altri uomini né toccare chicchessia, nemmeno i cugini. Non fu tutto repentino ma graduale, tanto che il suo carattere si plasmò per diventare mansueto e rispettoso. Servì il marito con abnegazione e venerazione, in ogni momento. In paese la chiamavano “la beata” o “la fortunata”, convinti che quello – avere tutto in senso materiale – fosse la felicità. Mia nonna Cosima non sapeva più parlare quando nacque mia madre, Ottavia. Non so nulla di quel periodo: Cosima ha sempre saltato questa parte nei suoi piccoli racconti veloci, a puntate, e nelle sue lettere di dieci righe. Quando Ottavia compì 10 anni, in un 7 luglio di sole, Cosima impazzì. Preparò borse e bagagli, leggeri, congedò la servitù prima di sera, preparò una cena e una torta di compleanno, si mise le scarpe buone e un abito comodo. Quando il marito si allontanò per bere e leggere il giornale, Cosima lo raggiunge e con tutta la forza che aveva in corpo riuscì a colpirlo con un grosso coltello da macellaio. Non seppe mai che ne fu del marito: non volle mai saperlo. Scappò correndo verso la stazione, si nascose, aspettò il primo treno con Ottavia stretta tra le braccia, tremando. Cambiò nome: non si chiama Cosima, davvero. Dopo qualche anno, quando Ottavia era già maggiorenne ed era già scappata pure lei, si stabilì qui: non ci raccontò mai come riuscì a fuggire, mantenersi, crescere una figlia. Secondo mio padre, si prostituì, secondo mia madre trovò qualche benefattore.

Questa fu la vita di Cosima, mia nonna: non fu pazza, non fu “La Fortunata”. Solo un’infelice prigioniera in fuga”.

Niente da dire

“Credo di avere ancora le tue mutande”. Risata – non la sentiamo, è solo una faccina gialla con le lacrime agli occhi, ripetuta tre volte. L. mi risponde di tenerle, se le trovo: qualche anno fa ci siamo trovate a un concerto di Tiziano Ferro quasi per caso – due ex colleghe – era il 2016 o il 2017, non ricordo. Era metà giugno. La metro Lilla era l’unica ad avere deciso di rispettare lo sciopero: lo scopro a inizio concerto. Sono nel prato, L. è in tribuna. Non so come ma ci vediamo da lontano, ci salutiamo e alla fine mi ospita lei, a casa sua, per quella notte. Non ho nulla, le dico, nemmeno un cambio. Ecco, ti presto io qualcosa. Il giorno dopo esco di casa indossando le sue mutande pulite, diretta velocemente a Pavia dove Mara mi avrebbe presa per andare al mare a Moneglia, in Ligura.

L. non la sento da tantissimo, ma mi ha scritto in questi giorni per chiedermi come stavo, per fare due chiacchiere virtuali. Come credo sia successo a molti: sentire persone lontane, sentirle con ogni mezzo e in ogni modo, anche persone che da una vita non erano più parte della nostra. Ho sempre odiato l’idea di stare a lungo al telefono, eppure ora quelle conversazioni lunghe due ore per raccontarsi come siamo dopo anni, sono splendide. Sono ancore. Appigli. Soprattutto – ma non solo – per chi vive da solo o quasi da solo.

Non so bene cosa dire, forse non ho nulla da dire che non sia già stato detto e ridetto. So di aver bisogno di ordine e che questo è il mio modo – simile a quello di molti – per trovarlo, dove non c’è. Per fare ordine potrei iniziare a dire che cosa vedo davanti a me. Vedo una sedia in plastica bianca, un mobile dell’Ikea e una scrivania piena di cose mie alla rinfusa. Sono semi sdraiata su un letto a una piazza e mezza. A destra, una libreria vuota, bianca: no, non è vuota: ci sono le mie tre paia di scarpe nere, la macchina fotografica, uno sgrassatore, le infradito e un trolley rosso pieno della mia biancheria intima. A sinistra un armadio, riempito per metà di vestiti troppo invernali, troppo per correre. Uno zainetto per andare a Torino, quando avrei avuto quell’evento di lavoro, una giacca nera, qualche cosa di carino per uscire: uscivo così poco anche prima, ma forse era solo una sensazione! Ricordo che non avevo per nulla consapevolezza: pur sapendo, informandomi, in realtà mi sembrava tutto surreale e sì, finirà in qualche settimana, mi dicevo. Sono andata al lavoro fisicamente fino al 9 marzo, poi smartworking fino a venerdì 20: il mio ultimo giorno.

Da quel giorno, il 21 febbraio, ho quasi traslocato 3 volte. Il 22 febbraio è arrivato mio padre a ritirare gli scatoloni, la maggior parte – il grosso, come si dice – per lasciarmi quattro cose utili fino al 20 marzo, massimo fine marzo, mi dicevo. Il primo marzo ho salutato casa e sono andata da V. per una settimana e il 7 marzo sono arrivata qui, nella mia prima casa pavese con due coinquilini per un po’, poi è diventato uno solo. Il perché credo che lo sappiano pure i muri: dovevo partire, realizzare il mio sogno e viaggiare per un tempo molto lungo – circa un anno o di più – per l’Africa.

Tutto questo c’entra. Le nostre storie e vite personali sono state travolte, congelate: a volte “solo” nella progettualità, a volte nel lutto e nel dolore, a volte nel chiedersi come pagare i debiti o come arrivare a fine mese, a volte nel lavoro di medico, cassiere di supermercato e tutti i lavori essenziali a contatto con il pubblico o addirittura in prima linea. Io devo ringraziare per questa casa e per l’amico che mi ha detto resta, anche quando mi sento regredita, come se stessi tornando indietro. Lo so che è assurdo da dire: ma vedo le case dei miei coetanei, le loro famiglie e dico: sono tornata indietro. So che avevo dei piani, che è l’emergenza e che non ho mai sofferto la solitudine e che le cose importanti sono ben altre, ma i pensieri sono strani e spesso si accalcano, creano assembramenti

Sì, ecco. Sono i pensieri ad assembrarsi in un flusso che a volte non so controllare, altre sì, grazie alla psicoterapia di cinque anni. Sono passata da varie fasi, ho avuto oscillazioni di umore. Ho iniziato pensando solo a me stessa – egoisticamente – e al mio viaggio. La prima settimana di marzo era ancora fatta di speranze racchiuse in un “manca ancora tanto al 16 aprile, passerà, no?”, andavo in ufficio a Milano in metro e autobus come se fosse agosto, andavo al bar a fare colazione per solidarietà visto che tutti lì intorno erano in smart working. Ero incredula, come tutti: tutto così surreale. In tempi non sospetti in cui il “virus cinese” sembrava così lontano e insignificante, ricordo di aver detto a mio padre, preoccupato: non vado in Cina, vado in Africa (che anche qui, ho cambiato data e meta nel giro di pochissimo tempo, era già iniziato in salita)! In caso, ci sarà pure qualche Paese senza virus, no? Non avevo nemmeno lontanamente pensato che fossimo noi quelli chiusi a chiave e che il virus sarebbe stato ovunque.

La prima settimana di marzo non ero per niente tranquilla. Ero ospite di V., un’amica conosciuta a Pavia nel 2013: ricordo benissimo che negli spogliatoi della scuola di latino americano dissi: scusate, sono qui solo da otto mesi, giustificando il fatto di non conoscere qualcosa della città. Ero in Borgo, dove non avevo mai vissuto, con lei e sua figlia A. Avevo un peso al petto, avevo la palla da baseball in gola: si chiama bolo isterico e viene per l’ansia. Ho avuto questa sensazione per tutta la prima settimana di marzo che al momento mi sembra così lontana, così infinita, così intangibile, fumosa, vaga. Non so collocarla e devo fare sforzi per ricollegarmi al tempo, al tempo che scorrere, a quello puntuale, a una data e a un’ora. È stato ieri? È stato oggi? Quando è successo? Conto con le dita e vado a ritroso nei punti fermi che possiedo. Mi ricorda molto quando a meditazione dovevo contare per capire la data. Avevo scritto molto su quell’isolamento condiviso e volontario. Avevo detto: ci vorrebbe un antropologo o un sociologo che andasse là, perché davvero capisco come nascono le dittature, come si impongono regole. Vero: le avevamo scelte, quelle regole, ma romperle era qualcosa di inconcepibile. Anche quando O. e io abbiamo deciso di andarcene, non riuscivamo a uscire da quella bolla di silenzio imposto.

Divago, mentre scrivo, perché preferisco a volte parlare di altro. La seconda settimana è iniziata di sabato pomeriggio con il terzo trasloco, da Alessio. Mi sentivo a casa, nonostante tutto. La seconda settimana c’era ancora del panico, del panico diffuso. Se mi ammalo, se si ammalano i miei cari, se infetto, cosa farò? Sarò disoccupata e senza casa. Il panico, la rabbia, il mio progetto, il virus. Non sapevo contenere niente, niente. Solo lavorare in smart working mi aiutava in parte. Paura, rabbia, panico, solitudine. La terza settimana è iniziata sabato notte con la febbre e l’ipocondria. Domenica V. mi ha lasciato gli assorbenti sulle scale, A. mi ha portato il termometro e la tachipirina alla paziente immaginaria.

La terza settimana è stata la migliore. Ho condiviso, ho raccolto, ho accolto, ho parlato, ho ascoltato, ho riso anche e in alcuni casi ero proprio serena. Ho parlato di meditazione, di progetti, di vita che ancora va avanti nonostante la sospensione. Le telefonate sono il mio appiglio maggiore, soprattutto se si parla di altro: non è facile, è difficile.

C’è stato un giorno in cui mi sono detta felice. Felice, una bestemmia di cui mi sento in colpa. Mi sono sentita in colpa, egocentrica ed egoista per le mie piccole cosucce saltate, per le mie incertezze lavorative e di casa. Ancora adesso, di preciso, non so bene cosa fare se non stare qui: senza lavoro, ospite da A. con un coinquilino con il quale andare d’accordo per forza. Felice. Per un senso di porosità. Per quella sensazione di apertura totale dovuta al fatto che non ho casa né lavoro e posso ripartire da zero, prima di partire per il mio progetto di viaggio. Posso studiare, scrivere, allenarmi mentalmente.

Ho pianto per Bergamo. Ho la lacrima che scende per ogni minima cosa: dal canto dal balcone alle letture in diretta su FB, dall’aiuto cinese alle testimonianze dei sanitari, da Conte – che pure mi commuovo per i suoi discorsi – a chi cerca di dire a tutta la famiglia che manchiamo, dai colleghi che mi dicono che sono stata una brava collega – anzi addirittura maestra e guida – fino alle testimonianze più atroci di chi ha perduto parenti e amici.

Tutto è onda, tutto va e viene.

Mi creo opinioni e ne distruggo altre, le lascio lì ferme. Penso che niente escluda niente: posso piangere e sapere di dover stare in casa, ma posso anche correre/camminare nel prato che costeggia il Ticino davanti a casa sapendo di non fare del male a nessuno. Posso seguire rigorosamente le norme come faccio, ripeterle ai miei, pregare il coinquilino di rispettarle e chiudermi in camera quando va da sua madre. Posso essere per la chiusura delle attività produttive non indispensabili – che poi il mio parere cosa conta? – ma non voler essere presa a male parole se vado a piedi a fare la spesa (non è successo e spero non succederà), posso avere l’ansia per il supermercato. Posso solo sperare che chi sa, chi decide, chi fa: sappia cosa fa, cosa decide. Posso affidarmi. Sperare che passi.

Posso costruire mondi nella mia testa o con chi sono in contatto. Potrei vedere film e leggere libri se riuscissi a concentrarmi. Non leggo dal primo marzo. Potrei scrivere, finalmente, se fossi più leggera. Posso da una stanza, da sola e non da sola, costruire legami sottili in modi nuovi: una lettera, una telefonata, una mail.

Posso arrabbiarmi, avere paura. Cazzo se ho paura. Posso usare le battute e i meme per alleggerirmi e ridere. Posso monitorare ogni singolo stato d’animo, ogni emozione: le ho provate tutte, dall’euforia al panico, la risata, il pianto e la commozione, la solitudine: fino ad arrivare al non lavarsi nemmeno i denti. Freezing, si chiama. Guardando notizie compulsivamente e ossessivamente mi sono solo fatta del male. Venerdì prossimo ho la seconda seduta di emergenza, per vedere come va. Oggi sono arrivata fino al Naviglio, 200 metri da casa. Ho pensato: che bello che ho il Naviglio. Penso a chi vive in situazioni di merda e mi dico: che bello che ho il Naviglio, una stanza perché ho un amico che ho risentito e rivisto e che mi ha voluto aiutare, che bello che posso stare lontana dai miei, preservandoli, si spera. Che bello che sono sola ma con un coinquilino, alla fine mi sento quasi più sicura. Mancano solo un divano e un soggiorno.

Da domani inizia la settimana senza quel fare lavorativo che mi aiutava tanto. Da domani devo preservare la mia mente e il mio corpo ancora di più. Da domani inizia la quarta settimana a partire dal primo marzo – non so perché conto a partire da lì, forse da quando non ho casa mia – e martedì sono due settimane che non vado a Milano. Sto in tuta – e non capisco l’accanirsi su un abbigliamento normale: già siamo reclusi, almeno comodi! – non mi trucco perché non mi sono mai truccata, ho fatto i baffetti con la ceretta del supermercato, mi faccio la doccia come sempre. Non cucino – cucino male proprio come prima – ma sono felice di non avere le abbuffate compulsive: forse ho la prova che davvero ne sono uscita!

Niente da dire. La bici blu è fuori dal cancello fatiscente. Qui vicino a Settembre di solito c’è il Luna Park. Chissà dove saremo a Settembre.

….

L’aria era quella di dicembre, anzi ormai si stava facendo gennaio. Per il calendario, lì dentro, era necessario contare: erano in clausura da cinque giorni, dal 27 incluso: fa 31, per forza. Manuela aveva sempre la felpa nera con il cappuccio tirato su e nelle poche ore libere la si vedeva a letto con i cuscini – due – dietro alla schiena, gli occhi forse chiusi. Guardandola dalla porta della camera si notava una sola linea che dalle coperte proseguiva lungo il cappuccio. Arya, una delle sue compagne di stanza, era invece sempre indaffarata a sistemare, fare la doccia, camminare, organizzarsi. Poi si stendeva e dormiva oppure piangeva: la prima volta accadde il quarto giorno e poi anche il quinto. Per questo la mattina del sesto giorno, anziché dormire nella sua pausa dalle sette alle otto, Arya si diresse, con il capo chino e infagottata nel piumino, nell’ufficio della Maestra.
Venti minuti dopo uscì a passo più veloce.
In camera guardò per la prima volta Manuela in viso.
Annuirono entrambe
Lucia le guardò, seduta, una gamba nei pantaloni e l’altra nuda. Le ciabatte una ai piedi e una sotto al letto.
Ehi!
Mm?
Manuela indicò la porta con il mento.
Arya annuì di nuovo.
Entrò un’assistente, la sola che poteva parlare con loro, le novizie.
State disturbando le discenti, disse sottovoce all’orecchio di Arya, mentre con una mano a mo’ di vigile fece uscire Lucia dalla stanza in tutta fretta, per l’ora comune.
Manuela abbassò nuovamente il capo
Ripetè di nuovo ehi! E schioccò le dita verso Arya che stava uscendo di corsa, scordandosi una piccola busta infilata sotto al letto.
Oh, gra…
Shhh
Ops!
Eh!
Arya indicò la porta e si portò il dito alla bocca.
Manuela rabbrividì, prima di uscire.
Salirono entrambe su una Panda gialla, con l’ordine di accostare le portiere senza sbatterle, per non disturbare le altre donne.
Furono portate in paese, giù, alla prima stazione.
Dovettero aspettare di essere lontane dagli occhi delle novizie prima di abbracciarsi e dire: oh, buon anno!

Esercizio
Dialogo (impossibile) a mugugni

Ansia da prestazione

Mi capita di avere piccole epifanie psicanalitiche in momenti del tutto normali e quotidiani. Da un piccolo caso, episodio o da una semplice scena riesco a dedurre elementi che posso portare in terapia, analizzandoli meglio con la mia analista fino a renderli astratti, fino a vedere un mio schema mentale. Durante una passeggiata nel Parco della Vernavola, per esempio, osservando una famiglia composta da papà, mamma e bambino di 2-3 anni mentre facevano un pic-nic, la mia mente ha elaborato piccoli pensieri che invece di restare lì, sono sfociati in una conclusione – lontana dall’essere definitiva e inamovibile – sul perché io non sia interessata a figli e famiglia, qualsiasi cosa si possa intendere con la parola “famiglia”. Questo è lontano dal giudizio: giudizio su quella famiglia specifica, sul pic-nic, sul parco, sulla mia situazione attuale. Non ho giudicato né loro né me. Non ho aggiunto emozioni alla scena: sono felici, tristi, che due palle, che noia. Non mi sono sentita manchevole né più fortunata. Non ho fatto alcun confronto né messo in discussione la mia scelta di vita o la loro. Ho semplicemente ricordato elementi della mia infanzia, ho fatto qualche associazione mentale veloce e nemmeno troppo originale, ho collegato qualche pezzo e sono andata dalla mia analista esponendo la mia teoria come se fosse una faccenda del tutto matematica.

Oggi sono andata a correre. Avevo voglia, ma meno di ieri. Avevo una lieve ansia, un senso di “qualcosa di brutto che potrebbe accadere ma non accade” e che non so mai come diamine chiamare. Mi sono sentita sola, al risveglio: ed è diverso dal voler stare sola che mi piace e che è la mia condizione in vari momenti della settimana. Mentre correvo, nella media, ho visto a più riprese stormi di ciclisti molto più consistenti rispetto ad altre domeniche. Una gara, forse? Ma perché allora non hanno chiuso la strada? Oltre a sentirmi un po’ di troppo – cosa sbagliata, visto che l’Alzaia è per ciclisti e pedoni – dovevo concentrarmi per non farmi investire e per non farmi distrarre dalla mia corsa. Ma c’è altro: ho corso più velocemente del solito. Di solito faccio 3 km in 20-19 minuti. Oggi 18 minuti. I 6 km che si collocano sui 40 minuti, al massimo 39, oggi li ho percorsi in 36 minuti. Ho chiuso con 9,9 km orari di media – mai successo – e 6.03 minuti per km toccando anche per lungo tempo i 5 e qualcosa minuti per km. Perché? Lo avrei fatto anche senza i ciclisti in massa a tenermi su di giri? Lo avrei fatto anche se avessi incontrato solo donne runner? Non so rispondere, ovviamente, ma so che mi sono posta la domanda. So che accelero se vedo uomini: che corrono, che vanno in bici. Accelero di poco o non lo faccio affatto se è solo uno, lento. In realtà pian pianino ho smesso anche se sono in blocchi compatti, per abitudine. I ciclisti solitamente sono troppo veloci per poter avere effetti sulla mia velocità complessiva, ma oggi erano sciami continui e senza sosta.

Ho pensato che tutto ciò debba avere a che fare con il maschilismo, una forma interiorizzata probabilmente, e con l’ansia da prestazione. Più volte con la mia analista abbiamo parlato del “non sentirsi abbastanza” nei confronti soprattutto del sesso opposto. Abbastanza cosa? Mi chiedeva. Bella? Intelligente? Brava? Colta? Abbastanza rispetto a chi o a cosa? Lei ha sempre cercato di andare oltre, ma non ci sono mai riuscita. Sdraiata su quel lettino balbettavo qualcosa ma senza riuscire a spiegarmi o ad andare oltre ai concetti del sentirsi inferiore, sbagliata, non abbastanza (Blunotte, Carmen Consoli). Ho letto Non volevo morire vergine e – al di là della storia in sé che io non potrò mai capire nel suo dolore e nella sua forza perché non ho vissuto quello che ha vissuto l’autrice e non mi permetterei mai di paragonare/mi – ho sentito miei alcuni concetti astratti sul “non meritarsi” l’amore. Che non è una questione di autostima, anzi, io ne ho forse pure troppa e sono anche un po’/parecchio egocentrica: è più un dato di fatto. Non sono fatta per piacere. Che anche detta così, non torna e sembra una lamentazione o una lagna. In realtà è più qualcosa che si percepisce di sé e del rapporto con gli altri, soprattutto se si è sole da sette anni, anzi ormai otto.

Tornando alla corsa, mi sono chiesta se con questo episodio io potessi fare un passo in più in questa ansia da prestazione, così da farla a pezzettini e limitarla, visto che crea solo disagi. Non voglio che mi si dica che corro come una “femminuccia”, non voglio che la mia performance sia giudicata insoddisfacente, non voglio dovermi giustificare. Mi sento osservata – spesso è una questione di egocentrismo e conseguente timidezza, una percezione erronea – e a volte lo siamo tutte: gambe, seno che balla, capezzoli che si intravedono anche se hai il reggiseno sportivo e tre strati di magliette termiche addosso. Mi sento sempre sotto esame, con gli uomini, qualsiasi cosa io faccia. Perché? Perché sono stata immersa in una cultura che li vede “migliori” sempre in tutto? Perché effettivamente mi superano sempre? Perché possono più di me e hanno più coraggio? Perché non sono timidi (non è vero, lo so) e non si imbarazzano o arrossiscono come me? Perché prevale una certa mascolinità che mi mette in soggezione? Perché do loro un potere che non hanno? Perché penso che guardino cose che non guardano? Perché ancora – nonostante il mio femminismo – sono immersa nella cultura per cui “siamo” in funzione di uno sguardo o uno sguardo maschile, magari benevolo? Perché pur accettando e ormai apprezzando la mia timidezza/introversione, capisco che ancora all’esterno è considerata un difetto?

Una volta, dopo un meeting andato malissimo, mi è stato detto: “grinta, mi raccomando” da un uomo. Mi ricordo di averlo sentito spesso, anche da piccola. Una su tutte, la mia prof di matematica delle medie, poco prima di iscrivermi al liceo Classico. Ho sempre odiato questa critica “costruttiva” perché non ho gli strumenti per fare qualcosa: io vorrei tanto che la mia grinta si vedesse e invece no, non si vede. E quindi mi tocca sempre fare di più, capire cosa comunico, correre più velocemente per non sembrare una mozzarella, parlare a tono più alto. E comunque la grinta non si vede. Quando a me sembra un successo perché mi percepisco meno timida, più forte, più determinata, agli altri sembro sempre una con poca grinta. Quando ho bisogno di tempo per riflettere, sembro una che non ha idee o opinioni, solo perché non arrivano subito. Quando pensavo di cantare e ballare al meglio nei miei saggi di danza e musica delle elementari, alla fine scoprivo che in realtà ero invisibile, nascosta, dietro a qualcuno o addirittura muta.

Ho corso più velocemente del solito, oggi. Vorrei che fosse sempre così a prescindere dagli stimoli esterni. Vorrei non avere questa ansia da prestazione per stare meglio con me stessa e con gli altri uomini. C’è qualcosa che ancora mi sfugge.

La rivoluzione del ‘29

Faceva caldo quella mattina di novembre. Guardammo tutti dalle finestre per sentire il silenzio. I mesi precedenti all’armistizio furono pieni di auto bruciate, vetrine infrante, donne scese in piazza per uccidere e restare uccise: a migliaia, cara Emma. Riempirono il centro di Milano rendendolo lugubre, oscuro, fatto di sangue e catrame. Quel giorno afoso di novembre tua nonna partorì tua madre: era in bagno, per il dolore si appese alla plastica della vasca e urlò. Arrivò un solo medico con una piccola borsa consunta agli angoli e qualche attrezzo d’emergenza. La nonna era piena di rughe come se avesse avuto il triplo dei suoi venticinque anni. Aveva combattuto portando la mamma con sé, per un po’: le battaglie, infatti, iniziarono a gennaio di quello stesso anno, quando io e tua nonna ci conoscemmo fuori da un congresso. In quel periodo vi furono strane uccisioni in massa di donne sole, in mezzo alla strada o violentate mentre correvano ed escluse sempre più spesso dalla vita pubblica e istituzionale. Ma c’era dell’altro: una scatola iridescente, bianca da un lato, era in grado di stabilire la data di morte di chiunque venisse al mondo. La scansione avveniva sulle piante dei piedi entro 5 ore dal parto. Questa pratica fu osteggiata da molti governi, perché da quando si iniziò a usarla, si creò uno squilibrio. Chi sapeva di morire giovane, diventava un delinquente senza famiglia. Chi sapeva di vivere a lungo amava rischiare: questa gente creava famiglie e studiava al solo scopo di arricchirsi. Dapprima fu solo per i ricchi – dato che una scansione costava diecimila dollari – poi i governi pensarono di metterla in atto solo sulle donne. Perché, ti chiederai, vero Emma? Per controllarle. Le cosiddette “morti giovani” erano destinate alla carriera: erano capaci di dedicarsi a un progetto specifico: osavano di più e non volevano mai figli.  In caso di ritrosia, si agiva chirurgicamente. Le donne longeve partorivano fino a sfinirsi. Quando mi incontrò, nonna Lidia era appena uscita dal solito congresso su leggi e diritti: era finto, per farle contente, e lo aveva organizzato lei. Lavorava part time in uno studio legale dove le avevano chiesto di non invitare donne perché il direttore dell’Istituto che ospitava l’evento non le poteva sopportare, tranne a letto. Lei sarebbe morta alla fine dell’anno, verso novembre, mi disse. Io, di me, non ne avevo idea. In quel preciso istante decise due cose, che cambiarono il corso della storia.

La prima fu di denunciare pubblicamente il direttore dell’Istituto. Costruì un monologo solido, pulito, nel quale parlava del potere come arma di dissuasione. Se mi licenziano, come posso ribellarmi? La seconda fu di amarmi, fidandosi di un uomo appena conosciuto che voleva una figlia.

Le sue proteste fecero iniziare la rivoluzione, prima silente e poi sempre più greve, impetuosa: le donne dovevano uccidere. Uccidere chi le aggrediva, le violentava, le ingabbiava, le costringeva. Le longeve smisero di fare figli e le precoci iniziarono a restare incinte. Quel giorno di novembre, la data che tua madre si portò per 25 anni tatuata sul braccio, pose fine all’energia animalesca delle donne che lottavano per se stesse e che ottennero più di quanto avevano chiesto. Nacque Sibilla e morì Lidia. Sibilla crebbe libera e senza percepire differenze con i suoi compagni maschi, ma nel tempo si dimenticò di quella società patriarcale: non la conobbe mai. Ora è tempo di ricominciare: i diritti acquisiti si stanno sgretolando, in silenzio. Per questo devi sapere la tua storia, Emma cara: per far nascere una nuova lotta.

Prova. Numero?

Ruben era convinto di non avere figli.

In effetti non ne aveva: viveva da solo al quarto piano di uno stabile poco distante dal centro, circondato da appartamenti simili al suo, in una zona residenziale e tranquilla. Nessuno lo aveva mai visto con bambini o adolescenti e – forse – nemmeno con qualche donna, sebbene il suo aspetto fosse piacevole. Aveva lineamenti dolci, un naso che di profilo lo vedevi dritto e stretto e sottile, labbra carnose, una barba poco evidente, tenuta bene. Portava i capelli medio lunghi con la scriminatura al centro, grigi. Era la sola cosa poco curata che avesse: unti, spettinati, spesso vedevi le ciocche separarsi e incollarsi in malo modo le une alle altre. Quando cadevano di fronte agli occhi, Ruben era costretto a infilarsi le dita tra i capelli, aumentando la sensazione di sporcizia. Non era magro né grasso: ben formato e muscoloso il giusto. Le mani erano quelle di chi aveva lavorato per anni in officina e ora non riusciva più a levarsi di dosso il senso di fatica e usura. Ruben non aveva smesso: era ancora giovane, non si può smettere a 45 anni di lavorare, ripeteva sempre alla sua amica Carmela. Semplicemente aveva avuto un problema, come lo chiama lui.

Il risultato è che Ruben aveva cambiato mansione e ora si dedicava alle scartoffie dell’officina di Jamal, un suo amico di vecchia data nonché suo datore di lavoro da quando aveva vent’anni. Non si lamentava: andava in ufficio con la stessa compostezza e la stessa educazione con cui si chinava sotto le auto. Ha imparato alla svelta, diceva sempre Jamal quando usciva l’argomento con i clienti del bar accanto all’officina, è sempre stato sveglio. Il bar, senza nome perché lo chiamavano tutti il bar, non aveva nemmeno un’insegna. Era un rettangolo, stretto e lungo. Il bancone di metallo lucido, un paio di tavolini di rappresentanza e un continuo via vai di gente per un caffè, un bianco, la brioche appiccicosa e troppo morbida scaldata nel fornetto nero, che stava dietro. Era sempre Carmela a fare domande: allora, come sta Ruben? Jamal solitamente faceva spallucce, mugugnava qualcosa o più spesso annuiva socchiudendo gli occhi. Poi magari, dopo qualche secondo di silenzio, era lui a dire che Ruben in fondo era un brav’uomo. Lui, Ruben, nel bar si vedeva di rado e quando entrava dalla porta in fretta e furia – come quel pomeriggio – era perché aveva bisogno di una birra o di farsi notare da Carmela.

Buongiorno Carmela!

Birretta?

No, facciamo…

Come sarebbe no?

Ma sì, la Peroni ce l’hai?

Mi è rimasta l’Heineken, ti va bene?

Sì, va bene!

Allora Ruben?

Eh.

Successo qualcosa?

È arrivata come, come un fulmine! Ieri, lei, la sua auto….

Chi?

Sabrina, si chiama. Non devi dirlo a nessuno, ok?

Cosa? Che ti sei fidanzato?

Dice che ho un figlio. Vuole farmelo conoscere.

Dio Santo! Ruben!

Non urlare!

Ruben, ascolta…

Ecco, io Sabrina me la ricordo, ma non bene. Prima del periodaccio uscivo con una: sembra lei.

Sembra?

Eh, Carmela! Prima, io…

Carmela si fermò a mezz’aria con lo straccio e le parole. Scosse la testa. Era poco importante chiedere altro, forse. Ruben non si sarebbe ricordato niente di più: usciva con una, una delle tante. Forse era questa Sabrina, forse no. Forse era rimasta incinta. Ruben abbassò gli occhi e iniziò a contare: uno, due, tre, quattro… Quattro! Urlò. Poi si corresse: con nove mesi fanno tre, tre anni. Era già settembre. Si portò alla bocca la bottiglia e tirò fuori cinque euro sgualciti dalla tasca posteriore dei jeans. Passò poi la mano nei capelli per scostarli dagli occhi, prima di prendere il resto. Indicò il bagno e chiese una sigaretta a Carmela.

Poi apri la finestra, capito?

Entrò un altro cliente, Carmela si fece ripetere per tre volte l’ordinazione, rovesciò una tazzina di caffè e buttò la birra di Ruben, ancora a metà.

Al lavoro, Jamal aveva semplicemente accolto una cliente giovane, con un caschetto nero corvino e due occhi azzurri ma scuri, truccata per tutta la palpebra superiore con un viola evidente. Si era presentata con l’auto parecchio malmessa: era un lavoro di carrozzeria e aveva chiesto di Ruben: per questa volta poteva accontentarla. Ovviamente non passò molto tempo prima che anche Jamal scoprisse tutto. Carmela ne parlò solo con la proprietaria del negozio di fiori di fronte al cimitero: Annalisa era una sua cara amica, aveva i suoi cinquantasette anni portati male per le troppe rughe e le mani screpolate e graffiate. Il cimitero stava a qualche centinaio di metri da lì.

Secondo me quella là lo sta imbrogliando, non sei d’accordo?

E perché mai dovrebbe farlo? Ha mica i soldi, Ruben!

Un lavoro e una casa sì! A volte bastano, sai che gente c’è in giro?

Oh Carmela!

Annalisa scosse la testa, bevve il suo bianco annacquato nella tonica e non continuò, lasciando la sua amica intenta a grattare una macchia di unto consistente e tenace.

Ehi! Non dirlo. Non dirlo a nessuno. La minacciò Carmela con lo straccio sporco.

Fu in questo modo, abbastanza consolidato e diffuso, che Jamal venne a sapere da sua moglie – che lo seppe dalla cugina della pollivendola del mercato del giovedì – la questione spinosa della sua ultima cliente e di Ruben. Una delle mattine seguenti, quando ormai la carrozzeria dell’auto blu di Sabrina era pronta, Jamal si decise a chiudere la porta dell’ufficio alle spalle di Ruben e a chiedergli di accomodarsi.  

Prove, sempre prove

Stiamo uscendo dalla metro, ma mi giro a guardarla. Io e la donna accanto a me rallentiamo e ci scontriamo, si sente rumore di sacchetti che si toccano, i volti girati verso una terza donna che sta urlando, al telefono. Ripete una sola domanda: come non provi più niente? Non piange, non singhiozza ma ha una voce che strozzata, sfinita come per stanchezza. Ho detto che urlava: in realtà sta fingendo, con sonorità solo leggermente più alte e acute, la sua voce è flebile e spezzata. Con le dita porta i capelli dietro l’orecchio, quello libero. L’altra donna curiosa accelera il passo, mentre io seguo la sconosciuta su per le scale, rimanendo dietro di lei al tornello, prima di perderla del tutto in una direzione opposta alla mia.

Sono passati cinque anni da quel giorno, eppure mi ricordo qualche dettaglio: avevo un vestito a fiori, leggero per essere aprile. Lei indossava una giacca rossa sopra a un paio di jeans. Me lo chiedono tante volte come sia andata. Sento un ronzio quando ne parlo, come una specie di rumore di sottofondo dentro alle orecchie: lo capisco che non è fuori, ma dentro. A quel punto di solito smetto di parlarne, lascio passare qualche secondo e bevo dell’acqua, se me la offrono. Capita che io sia davanti a un solo giornalista, poiché per le platee non sono più adatta, rischio di svenire. Il reiterarsi del racconto è un simbolo, una necessità di chi diventa un personaggio di una storia che nel tempo modifica i dettagli: un orecchino che sparisce, una parola nuova, una frase leggermente diversa. I ricordi sono un prodotto. È come se io dovessi trasmettere un messaggio che sento e vedo solo io: più passa il tempo dal messaggio originario e più si disgrega.

Fuori dalla metro, prima di perderla, sento la donna ripetere di nuovo quella frase, sempre la stessa fino all’uscita: lei incespica, si ferma con l’abbonamento a mezz’aria, poi spinge il tornello che si blocca. Riprova ed esce, io aspetto dietro di lei, pur potendo uscire prima. Lei gira a destra e io mi ritrovo a volerla seguire. Mi dirigo a sinistra verso l’ufficio, arrivo venti minuti prima degli altri, delle voci e delle telefonate. Non riesco a non scrivere di questa ragazza, anzi donna, a un’amica.

– Quanti anni avrà? 28?

-Come faccio a saperlo?

-Lavora qui vicino. Non è una commessa.

-Secondo me è un’impiegata amministrativa di una società di…

Sarà arrivata in ufficio: prima di tutti proprio come me, oppure si è fermata in un bar, dopo aver premuto il tasto per attaccare allo stronzo. Avrà fissato il telefono, sempre senza piangere. Dentro al bar è rimasta di sicuro al bancone, ordinando solo un caffè lungo o un ginseng in tazza grande. In ufficio ha tolto la giacca facendo un fruscio lento e tirando su con il naso: non se n’è accorto nessuno. Ha premuto il tasto di accensione del pc, preso un caffè e solo quando si è seduta ha realizzato cosa fosse successo quel mattino, in metro. Io ero lì, in quella scena importante della sua vita, mentre veniva lasciata in modo orribile senza un momento intimo.

Butto il telefono sulla scrivania e in qualche pausa lo racconto ai colleghi, lo rendo pubblico per non pensarci più. Quando torno a casa dopo il lavoro, avviso mia sorella che non ci sarei stata a cena da lei, quella sera, avevo voglia solo di dormire. La mattina mi sveglio alle cinque e mezza, tocco i vestiti sullo stendino e mi infilo quello che trovo, anche se la puzza di sudore era ancora rappresa in quei tessuti. Scuoto la testa e mi dico di dover usare un altro lavaggio o più detersivo. Prendo in mano gli appunti della sera prima, mentre mi infilo una scarpa da running viola, e leggo: donna di circa 28 anni. Si chiamerà Sonia? Alessandra forse. È impiegata, il suo fidanzato l’ha piantata in metro, davanti a tutti. Non provi più niente? C’è una lista di elementi di Sonia o Alessandra o Sandra che mi invento. Due sorelle più grandi, una laurea in giurisprudenza, vive a Porta Genova, in affitto con due coinquiline. Il fidanzato – anzi l’ex fidanzato – non è qui, vive a Torino. Sorrido e incomincio a correre: uno, due, tre. Il rumore delle scarpe sull’asfalto della pista ciclabile e del mio fiato sono nascosti dalla musica in cuffia.

Non succede molto e qui – sempre quando mi dilungo nel racconto, proprio in questo punto – il giornalista di solito mi incalza. Io mi fermo e chiedo dell’acqua.

Ci vuole pazienza.

Il prossimo appuntamento con una di loro è tra due giorni. Si chiama Ileana, scrive per una piccola testata indipendente, come volontaria. Preparerà un podcast con la mia voce, mi hanno detto le infermiere. Verrà lei qui, non dovrò spostarmi in nessuno studio dai mobili in compensato o in plastica, guardata a vista da uno dei secondini: sarebbe venuto di sicuro Jorge che è il più grosso e se mi incazzo sa tenere i miei 130 chili: non corro più, deambulo a stento. Mi hanno diagnosticato – come dicono loro – un disturbo del comportamento alimentare e leggere amnesie che mi costringono a rivedere il testo, a fermarmi perché mi manca una parola.

Quando ero ancora a casa mi ricordo che aprivo il frigorifero e con le mani a uncino arraffavo tutto in pochi istanti o nel tempo di scartare o distruggere intere confezioni di cibo: un morso al formaggio, prosciutto strappato via e infilato in bocca, pane, noccioline, cereali: una manciata, due manciate in bocca insieme al prosciutto, succo di frutta, un cucchiaio di crema al cioccolato, due, tre, quattro cucchiai insieme al succo e al formaggio e alle noccioline e allo yogurt. Non masticavo o lo facevo poco, tanto che si fermava sempre qualcosa all’altezza della gola e deglutire richiedeva l’impegno volontario dei muscoli unito a un po’ d’acqua o di birra. Quando c’era gente, durante un aperitivo per esempio, piluccavo con la punta della forchetta, poi allungavo la mano verso una mozzarellina o un pomodorino, sempre contando: mai più di due; meglio uno. In questo modo avevo fame e quel groviglio di rumori allo stomaco mi permetteva di andare a casa e ordinare una pizza e le olive ascolane e le patatine e un kebab. Avanzavo qualcosa perché mi fermavo pochi morsi dopo aver iniziato a sentire dolore. Altre volte no, procedevo senza sosta fino a una totale spossatezza che, lacrimando ma senza piangere, mi portava ad addormentarmi vestita e rannicchiata in posizione fetale sopra alle coperte. Mentivo sui vestiti, non mi pesavo: ho strappato pantaloni neri, ricucito bottoni e sono andata in giro con la lampo abbassata e una maglia lunga per coprirla. Quando mi hanno ricoverato pesavo 150 chili.

– Quando arriverà Ileana? Chiedo all’infermiera di turno.

Non lo sappiamo, rispondono. E mi fa gesti con la mano come a dire: è una sciocchezza, mentre sovrappensiero si ricorda di qualcosa, da un’altra parte, in un altrove che io non conosco. Di turno oggi c’è Anna. Mi chiedo sempre cosa facciano, quando non controllano me, non puliscono me. Fanno così con tutti i pazienti? Ma come? Vorrei avere il loro mansionario, perché sono certa che il loro lavoro non si esaurisca a ciò che fanno con me moltiplicato per i 15 o 16 pazienti del reparto. Ogni tanto li conto questi colleghi che condividono con me le posate della mensa, il purè e il prosciutto cotto, la crema di frutta, un caffè delle macchinette e la sigaretta di nascosto fumata sul pianerottolo. Lo sanno che fumiamo, devono solo fingere di controllarci, dicendo: ne puoi fumare solo 4 per oggi. Nessuno è lucido quanto me: sono tutti anziani con malattie neurodegenerative oppure pazienti con femori rotti che non si sono più ripresi. C’è qualche giovane, con sintomi che sono comparsi troppo presto oppure ci sono le persone sole. Mi sono sempre chiesta come avrei gestito il ricovero, se fossi stata come loro, i solitari intendo.

– Buongiorno, sono un malato di solitudine, posso fare domanda qui?  

– Sintomi? Mangio solo, non parlo, non riesco più a lavarmi in alcuni punti e nemmeno a mettermi le calze da solo.

– Bene, le faccio strada. Dobbiamo fare qualche esame.

Sarebbero comparsi esami con qualche asterisco: colesterolo alto, una lieve artrosi del bacino, uno stato igienico precario, magari un’infezione alle vie urinarie o un po’ di tosse. Per i più gravi anche una leggera insufficienza cardiaca o respiratoria. La solitudine sarebbe stata tradotta in numeri e asterischi, in visite da ortopedici e cardiologi e in un pre-ricovero temporaneo nel reparto chiamato “albergo”,

– …per capire se si può trovare bene qui da noi: in questa zona non ci sono persone malate, siete tutti svegli e, diciamo, autosufficienti. Si potrà anche divertire. Organizzano tante cose, le animatrici: cinema, bricolage, pittura, teatro… ci sono anche i clown e qualche volontario una volta a settimana.

Io sono come loro. Sono in albergo, nella parte più vicina al mondo esterno, con meno puzza di piscio, pannolini, disinfettante, meno dentiere, meno ossa, meno tele cerate e sedie a rotelle, meno odore di naftalina e finestre chiuse, meno odore di letti che si svuotano e di altri che si riempiono di nuovi umori, meno pianti e urla a sproposito, meno umidità e nessuna badante. In albergo ci sono finita per obbligo, per una sorta di ricatto: non sono matta, non lo sono mai stata. Cosa vuol dire poi, matta? Ho desiderato una diagnosi da manuale per molto tempo, ma non mi è mai stata concessa. Nessuno che vedesse in me i sintomi della bipolare, forse solo un lieve borderline – me lo aveva detto ancora quando correvo e pesavo meno un’amica psicologa – non ero depressa, non ero schizofrenica, ho chiesto persino se fossi una personalista narcisista, ma senza risposta. Ero apparentemente sana, lucida, capace di empatia. Volevo avere un’etichetta perché per quanto sembri assurdo, a volte sapere di averne una – una malattia, una condizione, una nicchia in cui stare e appartenere – è una liberazione estrema e rumorosa. È come se ci fosse uno schiocco, un tappo che si libera: non è una detonazione, ma un rumore sordo e preciso, netto, leggero. Mi sento legittimata a esistere. È successo con il disturbo alimentare: non sono sicura di averlo mai avuto, non ne sono certa, ma so che sapere di avere quell’etichetta rende ogni spiegazione, atto, conseguenza decisamente più sopportabili. I miei chili, le mie ossessioni sono dovute a una roba che non sono io. Una robaccia che non è la mia volontà, né il mio nocciolo. Mi faccio schifo, ma non sono io. Una cosa frequente, che dovrò dire a Ileana se me lo chiederà, è questo: ho avuto momenti in cui non avevo parametri sufficienti da definirmi patologica, ma non ero nemmeno del tutto sana. Sono sempre stata ambigua, nel limbo: né sana né malata. Ora sono in albergo perché non sono malata né vecchia.

Ileana a questo punto vorrà capire come tutti cosa sia successo, cinque anni fa e io, come sempre, le racconterò la mia solita versione che non arriva mai da nessuna parte.

-Dunque, Ileana.

Mi fermo sempre per un respiro, a ogni intervista: il tempo di far riesumare la penna dalla borsa, e aprire il quaderno trovato frugando per troppo tempo, come se non fossero mai pronti, questi giornalisti. Lei, in realtà, ha già tutto in mano: chiede solo se sia possibile registrare eppure la immagino mentre cerca i suoi strumenti. Annuisco con un cenno del capo, toccando con l’indice la sigaretta. Mentre cade la cenere, Ileana tira fuori un piccolo registratore digitale, bianco e obsoleto. Non si accende: le pile non funzionano. Lei guarda in basso, sul registratore e sulle sue mani che tolgono, rimettono, pigiano. Vedo una goccia di sudore cadere sul pollice prima che si possa strofinare la fronte con la manica della giacca. Ha le guance rosse, la voce impastata che emette solo pochi versi.

-Un attimo, ci sono, ripete. Niente…

Prende il cellulare, scorre lo schermo, si ferma e sospira: usiamo questo, va bene?

-Vuole farmi qualche domanda? Le chiedo, buttando fuori il fumo

-Sì, certo, sì… osserva il quaderno

-Quindi?

-Mi dica, da dove è iniziato… anzi, no.

Finalmente mi fissa negli occhi

-Ricominciamo daccapo, possiamo darci del tu?

-Non credo sia una buona idea, Ileana.

-Ok, allora mi dica come sta, oggi? Come si trova qui? Bene?

-Qui?

-Sì, qui.

Con il braccio disegna un semicerchio intorno al lei, lontano e vicino al tempo stesso.

-Sto bene, suppongo.

-Può raccontarmi qualcosa di più?

-Per esempio?

-Cosa fa, tutto il giorno? Di che si occupa? I suoi colleghi, diciamo, e le infermiere, come sono? Con lei, voglio dire…

Nessuno parla.

– Non voglio fare troppe domande, tutte insieme. Inizi parlandomi di questo posto.

Faccio due tiri dalla sigaretta e sento che le labbra non vogliono aprirsi.