Percorso e arrivo

metamorphosis-228720_1920“La maggior parte delle persone vive come se la vita fosse un arrivo”. Non è l’inizio, ma la conclusione di un discorso fatto di poche battute precise e determinate. Perché nella teoria siamo tutti bravi.

La meta ci deve essere, chiaro, ma la vita è percorso: altrimenti quando ci si ferma un istante a riflettere si sprofonda. Ciò che non abbiamo prevale a tal punto da gettarci nella disperazione. Perché in ogni istante ci sarà sempre un tutto che non abbiamo. Un niente che ci appartiene. Possiamo rigirarla in ogni modo, ma riusciremo sempre a scovare la mancanza o il fallimento: amore, lavoro, casa, interessi… E per fortuna! Significa che siamo sempre nel percorso, dentro questa ruota. Ottenuti alcuni risultati, ecco che le carte si mescolano e la partita ricomincia. Quella casa in affitto non è più una conquista, la forza di stare sola può vacillare, il lavoro ha sete di stimoli come se fossimo nel deserto. Arrivare vuol dire anche ricominciare oppure morire.

Eppure viviamo tutti come se l’arrivo fosse più importante di ciascun passo. Sì, sono ripetitiva con queste metafore da pellegrina, eppure, benché sembra una teoria consolidata – senza escludere quanto sia fondamentale avere una meta – la gente, come dice chi mi ha scritto, vive nell’arrivo.

Quanto mi è ora chiaro lo spreco di energie per un voto e per un pezzo di carta e non per imparare, per essere felice mentre scoprivo, studiavo, sapevo. Quanto mi illumina e mi rasserena sapere di aver bisogno di rimettermi in moto, di cambiare e procedere continuamente. So che a un nuovo cambiamento, a un nuovo obiettivo, ci sarà quella sensazione dolorosa di non avere. Non essere. E so che andrà solo affrontata come qualsiasi metamorfosi, come qualsiasi parto, come qualsiasi rinascita.

Si ricomincia, si procede, si indietreggia, a volte si distrugge e si ricostruisce, perché la vita e la felicità non sono mai – o non solo – un arrivo. L’arrivo può essere anche triste e malinconico, deludente o rabbioso, può voler dire perdere qualcuno, o qualcosa.

Per me invece la felicità è una risata prorompente, una routine piacevole, un inizio e una fine e ciò che vi è in mezzo, una sfida, un desiderio, un giorno qualsiasi, un momento preciso, un bacio, l’inatteso, la sorpresa, il rovescio della medaglia, i doni, la bellezza, il movimento, il crepitio e i rumori in una carrozza di un regionale veloce. La felicità sono pagine scritte, l’arte, la sapienza, i limiti umani e chi li supera, le lacrime di una madre, un volto stanco e anziano, un occhio luminoso, lo sguardo d’amore di un padre, le scelte di un figlio. La vita è il momento del percorso nel quale siamo. Qualsiasi esso sia. Rinascita, ricaduta, dolore o gioia, novità o insofferenza. Con quello che abbiamo e con ciò che manca.

Tiziano Ferro

11705952_10153567263045209_1466884492_oNon piango più come una volta. Non sfrutto quella valvola di sfogo. Non mi sentivo debole, ma capace di buttare fuori ogni cosa. Certo, significava anche essere inetta nell’affrontare minuzie, sensazioni, rimproveri, insoddisfazioni. Ingombravano la mia mente e uscivano sotto forma di lacrime. E il senso di colpa innescato dalla consapevolezza di avere tutto e non sentirsi a posto acuiva un disagio, un vuoto. Però piangevo. Almeno piangevo.

Ora qualcosa si è rattrappito e cristallizzato all’altezza dello sterno, mi disse una cartomante a una festa di paese. Non una di quelle feste con le zanzare e la pelle appiccicosa, né con le giostre e lo zucchero a velo o le frittelle. Era invece dolciastra e affettuosa, sottile e delicata. La cartomante mi parlò di amore, ovviamente, e di quel sentimento che sta lì e non permette di scegliere, di dare vita a qualcosa. Preferisco rinunciare. Perché? Banale sarebbe dire che non voglio soffrire.
C’è qualcosa di più. Qualcosa che non voglio perdere e qualcosa che non voglio acquistare. Qualcosa che mi fa chiudere per difendermi. Qualcosa che mi fa dire: rinuncio, pur di lasciarmi aperto un orizzonte ampio e solo mio. Mi viene in mente Piazza Unità d’Italia a Trieste. Quell’apertura della terra verso il mare, quel tutto che si distende ed estende. Ed è così che vorrei sentirmi.
Ma paradossalmente ottengo l’esatto opposto. La mia libertà a volte mi rinchiude e mi blocca. La mia libertà non mi fa piangere. Mi ha reso dura, forte, decisa. Tante belle conquiste… e poi?

Stanotte ho assaporato parole forti, che un tempo erano pugni allo stomaco. Mi ci ritrovo tutt’ora, le pronuncio urlando in uno stadio come se fossero fisiche, come se le masticassi o le leccassi. Ma non piango, non mi commuovo. Ripercorro il passato, e spunto nella mente tutte quelle situazioni cantate e che io ho superato. Mi sento arida, fredda. Vuota. Non ho nessuno a cui dedicare desideri nascosti, né da mandare a fanculo o da dimenticare. Non desidero alcun ritorno. Tutto è nello scatolone della mia vita precedente. Non ho più la sensazione di aver perso una parte di me, perché questa si è rigenerata come la coda di una lucertola. Canto e penso a tutte quelle vittorie, e alla mia fuga da qualsiasi sentimento.

Ed eccola lì, la verità. Inutile fingere. Io non sono pronta. Non sono pronta ad abbandonare ciò che sono, la mia roccaforte di sicurezza, determinazione, risate, progetti che riguardano solo me. Una roccaforte di curiosità, passione, disciplina. La voglia di imparare, di migliorarmi su tutto, di diventare. Una me che non vuole o non sa lasciare spazi vuoti.

A capo, riga, spazio bianco.

Per dare ritmo, per respirare.

Solo camminando o correndo la mia mente trova il suo spazio bianco. E l’ho capito soprattutto in queste due settimane senza sforzi, per via di una banalissima tendinite. Non tanto per la fatica del riposo, quanto per una frase emblematica detta da un’amica: “Se non sei iperattiva nel corpo, è iperattiva la mente; e viceversa”.

Non sono pronta perché devo sciogliere ciò che si è cementato dentro, ciò che si muove e borbotta con movimenti circolari. Non riesco ad accettare un sentimento perché sento di aver bisogno di dimostrare qualcosa. Perché non voglio accontentarmi, ma non è solo questo. Voglio dimostrare a chi e cosa? Con i miei viaggi, con le mie azioni forti, con la mia sincerità a volte sboccata cosa voglio dire? Che anche se sono timida non sono una “femminuccia”? Si tratta di una sensazione di confusione tra il maschile e il femminile che sono in me? Una ribellione disordinata e spastica ad alcuni stereotipi di genere nei quali non mi trovo? O perché la mia introversione o timidezza mi fanno apparire stupida? Respiro con fastidio una tendenza alle etichette, per cui non importa più se mi va di fare una cosa, perché tanto ci sarà sempre qualcuno che mi dirà che è di moda e sono conformista in ciò che scelgo. O ci sarà qualcuno che invece mi farà sentire un’aliena per alcune banalità, o perché accetto con fatica di possedere in me alcune caratteristiche femminili.

Uno, due, tre se conto Londra, quattro con il Cammino e cinque il Brasile che ancora deve venire. Cinque. Per sentirmi forte. Perché amo viaggiare. Perché la bellezza si auto alimenta e più lo faccio e più lo voglio fare. Perché da sola scopri particolari, vivi esperienza più forti e ogni elemento non è più vacanza, ma viaggio. La soddisfazione di organizzare, di averlo creato tu. Non è tanto ciò che visiti, ma come ti muovi a fare la differenza. E i momenti di felicità sono impensabili: un giorno di diluvio in Cambogia, un aereo interno viaggiando leggera tra Hanoi e Saigon e la guida che prende vita sotto la tua matita; quegli aneddoti che continuerai a ripetere per non dimenticarli mai. Ma c’è anche quella spinta là sotto. Lo sai che c’è. Dimostrare a te stessa di essere forte. Dimostrarlo agli altri. Al sesso maschile soprattutto. Forse a quel padre che vuoi stupire sempre, che vuoi non deludere, al quale vuoi dire che non c’è solo la tua timidezza, e che quella timidezza non è così una brutta roba. Sa essere bella, la stai accettando, ma non riesci a farlo del tutto fino a che non senti che quel legame con l’uomo per eccellenza si è ricomposto. Fiducia, accettazione, orgoglio. Semplicemente amore nelle nostre incolmabili diversità. Diversità di opinione, religione, politica, pensiero, ma stessi geni quando si tratta di quelle caratteristiche di personalità che fanno sorridere.

E poi ne hai ancora da scavare per scioglierti. Ci sono le blatte da affrontare: gli aspetti oscuri di te, quelli che ti fanno schifo, ma che ci sono. Quella cattiveria che sta lì, quell’egocentrismo che non ti fa vedere l’altro, quell’invidia che va analizzata e sminuzzata. Ho letto un libro sull’introversione: “Quiet” di Susan Cain. Mi ha aperto il mondo del mio narcisismo (mi piaccio e mi amo tantissimo eppure la maggior parte delle volte non mi accetto). E mi ha permesso – tra i mille spunti – di indagare i miei moti di invidia e quindi la mia ambizione, del tutto svincolata dal classico desiderio di diventare quadro in azienda, ma molto più vicino all’idea di fare un lavoro unico, creativo, cerebrale. Ma le schifezze sono ancora più profonde. Mi troveranno, si presenteranno. E le accetterò queste blatte.

Qualche notte fa ho sognato uno sconosciuto nel gesto di presentarsi e subito dopo un uomo che mi soffoca e si lamenta dei miei atteggiamenti ondeggianti, liberi e prepotenti. Ecco. La summa delle mie relazioni: amo il corteggiamento, la lusinga, il riempire alcuni vuoti, la parola piena di contenuto, ma è indispensabile che tutto ciò non ecceda la misura per non vedermi fuggire nella mia amata solitudine. E – forse – sto anche accettando di conoscere ciò che di me è sepolto.

Devi anche fare sì che nessuno si possa sentire in diritto di dirti che devi essere più o meno qualcosa. Non parlo di non accettare critiche costruttive. Sono convinta che serva circondarsi di Maestri.
Parlo invece di quella tendenza che hanno con te alcune persone. Dirti che prendi un gelato troppo calorico (quando hai appena fatto 30 km a piedi), dirti che dovresti parlare in pubblico, guidare l’auto, trovarti un uomo, essere più magra, più femminile, meno spacca coglioni, più socievole, lavorare di più, essere meno chiusa, più – meno – più – meno – più – meno – più – meno e sei sfinita. Perché non vai mai bene. Sei tu la più critica con te stessa e questo rende critici gli altri verso di te. Forse sei tu che – senza saperlo – dai questa autorizzazione? Tu permetti che ti dicano di mangiare di più o di meno, di ballare di più o di meno? Da dove inizia tutto ciò? Da dentro o da fuori? Dove sta la tua debolezza e perché ti ammazzi per colmarla? Quei viaggi per dimostrare che sei forte sono dentro di te. Vuoi urlarlo che sai stare sola, che sei capace di fare “tutto”. E sai bene che non è vero. E sai bene che nessuno ti vorrà meno bene per questo. O ti stimerà e ammirerà di meno.

Alla fine del concerto hai capito che quel nodo, quel grumo sta ancora lì. Ora lo sai. Sai che sei felice fuori e che lo sei dentro, ma solo per tre quarti. “Dopo un lungo inverno accettammo l’amore…”.
Non sono ancora pronta, ma amerò di nuovo, senza vergogna e senza paura. E sarà come quell’abbraccio che mi ha fatto piangere e sciogliere. Quello del fidanzato di un’amica, quello del perdono per uno schiaffo, quello che ha riportato la pace in tempo di lutto. Un abbraccio potente dal quale sono sgorgate lacrime liberatorie. Quel concetto di libertà cambierà, ti cambierà e non sarai mai più schiava di te stessa.

—-

C’è chi ha detto tutto ciò meglio di me:

Scivoli di nuovo
Conti ferito le cose che non sono andate come volevi
temendo sempre e solo di apparire peggiore
di ciò che sai realmente di essere.
Conti precisi per ricordare quanti sguardi hai evitato
e quante le parole che non hai pronunciato
per non rischiare di deludere.
La casa, l’intera giornata,
il viaggio che hai fatto per sentirti più sicuro
più vicino a te stesso,
ma non basta, non basta mai.

Scivoli di nuovo
e ancora come tu fossi una mattina
da vestire e da coprire
per non vergognarti
scivoli di nuovo e ancora
come se non aspettassi altro
che sorprendere le facce
distratte e troppo assenti
per capire i tuoi silenzi
c’è un mondo di intenti
dietro gli occhi trasparenti
che chiudi un po’.

Torni a sentire
gli spigoli di quel coraggio mancato
che rendono in un attimo
il tuo sguardo più basso
e i tuoi pensieri invisibili
torni a contare i giorni
che sapevi non ti sanno aspettare
hai chiuso troppe porte
per poterle riaprire
devi abbracciare
ciò che non hai più
La casa, i vestiti, la festa
ed il tuo sorriso trattenuto e dopo esploso
per volerti meno male,
ma non basta, non basta mai

Scivoli di nuovo
e ancora come tu fossi una mattina
da vestire e da coprire
per non vergognarti
scivoli di nuovo e ancora
come se non aspettassi altro
che sorprendere le facce
distratte e troppo assenti
per capire i tuoi silenzi
c’è un mondo di intenti
dietro gli occhi trasparenti
che chiudi un po’.

E non vuoi nessun errore
però vuoi vivere
perché chi non vive lascia
il segno del più grande errore.

Scivoli di nuovo
e ancora come tu fossi una mattina
da vestire e da coprire
per non vergognarti
scivoli di nuovo e ancora
come se non aspettassi altro
che sorprendere le facce
distratte e troppo assenti
per capire i tuoi silenzi
c’è un mondo di intenti
dietro gli occhi trasparenti
che chiudi un po’.
Che chiudo un po’.
Che chiudi…

E ancora …

L’Olimpiade
Casco e non mi arrendo
Riderai vincendo
E saprai che ciò che hai lo devi a te!

La fine
Io non lo so chi sono e mi spaventa scoprirlo,
Guardo il mio volto allo specchio
ma non saprei disegnarlo
Come ti parlo, parlo da sempre della mia stessa vita,
Non posso rifarlo e raccontarlo è una gran fatica.

Vorrei che fosse oggi, in un attimo già domani
Per reiniziare, per stravolgere tutti i miei piani,
Perchè sarà migliore e io sarò migliore
Come un bel film che lascia tutti senza parole.

Non mi sembra vero e non lo è mai sembrato
Facile, dolce perchè amaro come il passato
Tutto questo mi ha cambiato
E mi son fatto rubare forse gli anni migliori
Dalle mie paranoie e dai mille errori
Sono strano lo ammetto, e conto più di un difetto
Ma qualcuno lassù mi ha guardato e mi ha detto:
‘Io ti salvo stavolta, come l’ultima volta’.

Quante ne vorrei fare ma poi rimango fermo,
Guardo la vita in foto e già è arrivato un altro inverno,
Non cambio mai su questo mai, distruggo tutto sempre,
Se vi ho deluso chieder scusa non servirà a niente.

Il sole esiste per tutti
E trasceso il concetto di un errore
Ciò che universalmente tutti quanti a questo mondo
Chiamiamo amore

Blunotte  – Carmen Consoli
Forse non riuscirò
a darti il meglio
più volte hai trovato i miei sforzi inutili
forse non riuscirò
a darti il meglio
più volte hai trovato i miei gesti ridicoli
come se non bastasse
l’aver rinunciato a me stessa
come se non bastasse tutta la forza
del mio amore
e non ho fatto altro
che sentirmi sbagliata
ed ho cambiato tutto di me
perché non ero abbastanza
ed ho capito soltanto adesso
che avevi paura
forse non riuscirò
a darti il meglio
ma ho fatto i miei conti e ho scoperto
che non possiedo di più

Movimenti

dogs-679900_1280Si agitò leggera, scrollandosi un po’ di fanghiglia secca rimasta attaccata tra una corsa e l’altra. Sospirò guardandosi intorno e si sporse in modo da scorgere un calendario. Stava lassù, appeso al muro, ma non vedeva bene da quella angolazione. Diede un colpetto a sua sorella, che sonnecchiava: «ehi, tu… vedi mica da quanto siamo qui ferme?».

Sua sorella socchiuse gli occhi per un istante, seccata. Con un colpo secco spostò i lacci in modo da osservare meglio le date.

«Dunque… oggi è il 28, vero?», chiese con la voce impastata e proseguì: «Direi che si tratta di una settimana e mezza. Giorno più, giorno meno». E ritornò nel suo dormiveglia.

L’altra non riuscì a rassegnarsi. Ma cosa poteva fare da sola? Iniziò a osservare il disordine di magliette sporche, polvere, qualche calzino abbandonato. Gli abiti, anche se puliti, avevano in dote qualche piegolina, una stropicciatura.

A distrarla da quell’opera di catalogazione puntigliosa fu un rumore, proveniente dal suo lato destro. Sua sorella non si accorse di nulla, ma lei ne fu incuriosita. Un bussare incessante nel quale le sembrò quasi di riconoscere un ritmo. Ma che diamine, quale vicina avrebbe mai potuto compiere un simile gesto?
Non fece in tempo a pensarlo che proprio quella vicina, stufa anch’essa dell’indolenza della compagna, le rivolse la parola.

«Ehi, anche tu ferma?» sussurrò, ridacchiando.
«sembra proprio di sì. Lo siamo tutti, qui…».
«Di cosa ti occupi?»
«Noi corriamo, ma siamo ferme da una settimana e mezza. E tu? Anzi, voi?»
«Uh sì, lei è la mia compagna. Scusa, che sciocca, non ho fatto i dovuti onori… noi balliamo. Non si nota?».

La runner sorrise, quasi in imbarazzo per l’eleganza della nuova amica.

«Questa fanghiglia è fastidiosa. Cosa ci vuole a toglierla? O meglio ancora sarebbe correre altrove. Ma lei no, non vuole. Il panorama non è lo stesso, dice…»
«noi siamo nuove, ma ferme», sospirò la ballerina, «a volte mi chiedo se ci sia qualcosa di sbagliato in noi. Magari siamo troppo piccole o.. troppo alte?».

La runner la rassicurò e le due ben presto si ritrovarono a ridere con vigore, senza preoccuparsi delle rispettive compagne dormienti e impigrite da quella pausa forzata.

In un attimo fu già ora di cena, la porta si spalancò portando con sé movimenti veloci, passi frettolosi. Sara posò la borsa, si spogliò e si infilò in doccia. Solo dopo quel momento di relax riuscì ad addolcirsi, indugiando davanti allo specchio con occhio critico. Era tardi, vide la stanchezza sotto gli occhi e una caviglia gonfia che non accennava a guarire. Nulla di grave, si disse, ma quella pausa non le faceva certo piacere. Insoddisfatta guardò anche lei il calendario senza troppa attenzione. Poi spostò gli occhi dalla parte opposta e vide una delle due scarpe da ballo quasi riversa sopra quella da running.

Si avvicinò per rimettere ordine, sussurrando: «Ragazze, dovrete stare a riposo ancora per un po’, fate le brave…». Richiuse la porta pensando alla pazienza, all’attesa e a ciò che non capita mai per caso.

Cara Mariangela

bob-dylan-63158_1280Cara Mariangela,

è da tanto che non ti scrivo e ultimamente ho saltato anche qualche sabato. Tu resti sempre nei miei pensieri e il bene che ti voglio è immenso. Mi hai aiutato tanto da quando mi sono trasferita a Pavia e ti ho conosciuta. Credo di poter dire che sei la mia migliore amica in questa città (insieme a Silvia, te la presenterò). Mi hai capita, ascoltata e hai saputo trasmettermi la tua passione, il tuo amore per la vita, la tua saggezza. Ricordo i momenti in cui entravo in Istituto un po’ triste o ansiosa o piena di dubbi e paure. Bastava stare con te, chiacchierare e ridere per uscire da lì rinata. Ogni cosa diventa più chiara e nitida se ne parlo con te. Hai un potere e una capacità enorme: quella di capire le persone. E noi ci capiamo perché siamo così simili, vero? Abbiamo le stesse passioni e la stessa visione della vita. Non sappiamo accontentarci e siamo testarde nel raggiungere i nostri obiettivi. Mi piace quando mi parli della tua giovinezza, del tuo ballare… ti si illuminano gli occhi stupendi che hai. Anche nei momenti in cui la tua mente si adombra di ricordi tristi, non perdi quella forza e quella vitalità incredibili. I tuoi ricordi di vita mi mostrano un percorso e mi fanno avere fede: fede nella vita, nelle sue bellezze e nei suoi colpi bassi, nei suoi regali e nelle sconfitte. Mi fai aprire gli occhi sul percorso, mi riporti al mio cammino.

Vorrei tanto parlare ore con te, mi è piaciuto avere consigli sugli uomini e  capire insieme a te che quelli poco decisi non vanno bene. A volte mi sento così maschile, forte e indipendente che penso di non riuscire a trovare un uomo che sappia come prendermi. E ho paura della mia fragilità. Della me delicata, leggera e schiva. Sul lavoro, il mio sogno preme forte: vorrei scrivere di narrativa. Il giornalismo è solo una parte di ciò che amo fare, e il mio lavoro attuale comprende anche molti compromessi. Penso di avere esaurito la pazienza e che i compromessi ora siano troppi. A volte mi sento entusiasta e combattiva, come se potessi davvero fare tutto; altre volte mi scontro con la realtà, con la paura e con il fatto che – in fondo – non sono capace di mettermi lì e pensare a un racconto. Scrivo solo pensieri miei, spesso brevi, sulla mia vita. Ma ci sto provando, con ogni mezzo, a sbocciare, a diventare ciò che sono, a rendere grazie al dono favoloso della vita, a non sprecarlo: non nel senso di fare di tutto e provare tutto, ma nel senso di capire ciò che è davvero importante per la nostra realizzazione e per lasciare questo mondo con serenità, quando sarà il momento.

Grazie per tutto ciò che mi insegni, perché sono sempre più ricca, luminosa e bella quando ti vedo. E più felice.

Ti voglio bene

 

*tutte le altre lettere a senso unico sono personali, ma ho voluto condividere questa, per ringraziarla davvero e di cuore.

Una sola direzione

stones-339254_1280Quando corro penso, per distrarmi dalla fatica.
Corro da pochissimo eppure mi sembra di averlo sempre fatto, corro perché sono finiti i corsi di ballo, perché camminare richiede troppe ore, corro per avere controllo di mente e corpo. Qualsiasi attività fisica di per sé va bene, per esercitare un’azione che non mi lasci alla deriva. Corpo e muscolo controllati, decisi, in attesa di essere scolpiti e portati fuori. Mente fluida e vasta che accoglie, depura, elabora e restituisce. Una tendinite mi sta obbligando a comprendere le mie esagerazioni, la mia indole insofferente, cosa significa la mancanza di un ordine, che solo l’attività fisica sa darmi. Grazie al controllo: posso, faccio, concludo. Il muscolo si muove, la mente lo segue. Il respiro unisce le due metà. Iniziare è l’azione più difficile, spesso una scintilla, altre volte un’occasione, una voce. Non sai mai da dove sia nata l’idea, ma sai che era lì. Nel mio caso lo yoga, il ballo, la camminata e ora la corsa. Erano lì, ad aspettare me e io li stavo cercando.

In uno di questi “pensieri da riordino”, che ti scombinano, sono caotici, confusi, vanno e vengono, ma sono bravissimi a “spazzettare e rassettare”, ho iniziato a pensare anche a loro. Gli uomini. Ma anche l’essere umano in sé. Le relazioni, ecco, sì. Quel rapporto di scambio dal quale a volte scappo. Se avessi davanti un uomo, quando fantastico, penso sempre a cosa gli racconterei di me, in perfetto stile Eleonora-centrico. Inizio così a definirmi, nel mio finto narrare a me stessa, senza un contesto. Una sorta di CV a ritmo di corsa e sudore – 1,2 – mi piace viaggiare, sì, sono stata in India, Asia… ma ho scoperto tardi questa capacità di adattarmi, anzi, questa esigenza – 1,2 – l’India, il battesimo… non ero sola, ma nemmeno con qualcuno… e così senza costrizioni racconterei la bellezza e l’unicità di quando mi sono trovata su un treno di terza classe notturno, verso Bengalore, mentre il mio compagno di viaggio Aloysius parlava tamil con sconosciuti. Ho provato sorpresa e ansia nel trovarmi in auto con una donna musulmana. Ha voluto portarmi da pizza Hut, in quanto italiana, e poi a casa sua a riposare e a mangiare (ho preferito il suo cibo indiano buonissimo, ma da pizza Hut mi sono commossa per il bagno e la carta igienica). Una famiglia composta da cattolici, induisti, musulmani. Una carezza e ho sentito le tensioni sciogliersi, la mia fiducia uscire da ogni poro – 1,2 – il respiro fluire libero in un sorriso. E parlerei di tutte queste chicche che ormai i più conoscono a memoria, degli incontri possibili perché sola, dell’uomo con l’ukulele a Saigon, della donna pazza e gentile a Chiang Mai. Mi definisco con uno zaino e pochissimo da portare con me, l’essenziale, se riesco. Mi piace cullarmi in questi ricordi, ripeterli, ripassare la lezione. Sono ancora pochi, sono embrionali… oppure mi tratteggio con le mie attività vecchie e abbandonate, o attuali e attive. Mi costruisco, mi identifico in un sé fatto di esperienze, immaginando un uomo al quale vorrei trasmettere la mia indole maschile, la mia natura ambivalente. La mia forza nella timidezza, la mia ribellione nella calma, la mia adrenalina nell’introversione: mi vedi insicura, silenziosa, quasi tranquilla? Eppure sono tenace, definita, senza fronzoli e orpelli. Sono lo stravolgimento di ciò che è femminile e maschile: dentro di me entrambi si mescolano, per non rispondere agli schemi sociali. E quando mi dicono che da sola non sempre va bene, mi chiedo perché dovrei sforzarmi di inseguire la socialità estrema a ogni costo. Necessito del mio silenzio, del mio fantasticare, del fingere di raccontare episodi piccoli e marginali. Ho bisogno di andare al cinema da sola, e di ridere con un’amica. Non vi è l’uno, senza l’altro. Non sopporto le chiacchiere vuote, ma amo i silenzi pieni, le parole intime, gli sguardi di complicità. Mi piacciono gli stimoli forti, anzi fortissimi: un concerto, l’adrenalina di un’impresa, la musica alta, la pista piena, l’uomo che ti guarda con quello sguardo lì, proprio quello. Arrossisco, ma non abbasso lo sguardo. E l’uomo che vorrei trovarmi davanti, a prescindere da tutto (quelle minuzie che ci fanno infatuare, i difetti che amiamo) dovrebbe condividere la mia visione interiore. Dovrebbe comprendere il mio lato maschile, esaltarlo quando serve. Dovrebbe usare il suo per placare il mio, con quella liberà che scorre ovunque, insieme all’appartenenza data da radici profonde. Vorrei poter dare questa me sicura a lui, e quella insicura la vorrei plasmare con lui. Vorrei dargli i miei segreti affinché li curi, li valorizzi, li consideri un’unicità in più. Vorrei accogliere le sue lamentele, i suoi vizi, i suoi punti deboli per farne un quadro di colori vivaci, vorrei giocare a braccio di ferro e perdere. La fiducia ci unirebbe, la libertà di fare non creerebbe assenza e mancanza, ma voglia.Vorrei essere un pezzo del mosaico che gli permetterà di realizzare uno qualsiasi dei suoi sogni, anche se questo comportasse il mio silenzio. Vorrei mostrargli ciò che non conosce e imparare con delicatezza. Vorrei condividere, ma senza possesso; amare, ma senza giudizio. Vorrei ridere, arrabbiarmi, farmi portare la spesa e indossare il rosa, rubargli le scarpe da running, camminare più di lui, ed essere più disordinata di lui, vorrei invertire ruoli inesistenti quando ne abbiamo voglia, e mai sentirmi chiedere o pretendere un “posso?”. Vorrei stare sola quando serve, e capire quando non è il caso di andarmene. Vorrei soffiargli il mio entusiasmo addosso e mostrargli la mia felicità per le piccole cose. Vorrei una bellezza che ti si stringe addosso, soggettiva e dipendente dai nostri occhi. Vorrei un cammino comune. Vorrei insulti e lacrime e una pelle che ti parla. E anche qualche scusa. Vorrei superare quella barriera, quella del sé, per diventare l’altro. Per diventare tutto. Sento di nuovo il sudore – 1,2 – 1,2 – sento le gambe, lo sforzo, i pensieri si vaporizzano. L’allenamento è quasi completato, mi vedo in ogni elemento naturale e canto come una matta mentre cammino verso casa. E sì, vorrei una sola direzione per due sguardi.

Il gioco del “mi piace”

2423518111_7d58d9d412_oQuello che rende poetico Amelie, quello che ha reso uno spazio di Facebook più umano. Il gioco del mi piace, del bello, del momento che ti lascia quella sensazione di bianco. Non è la felicità estrema, non è la gioia istintiva né sconfinata. Si tratta del piccolo e del semplice, a volte anche del maestoso, ma sempre soffice, delicato, mai urlato. Non è il giorno della laurea o il parto, ma è il sapore della sigaretta prima della discussione della tesi o il gesto rapido e scombinato di un futuro padre mentre apre la portiera dell’auto alla sua compagna. Sì, è un elenco, ma un elenco liberatorio, che al mattino riempie la scatolina dell’entusiasmo e alla sera ti scioglie in un sorriso. È guardare un film della tua infanzia e scoprire quanto sia ancora bello e originale, anche se non te lo ricordavi così bene. È capire che – in fondo – è la bellezza a restare, la sensazione. Mi piace chi nota le mie scarpe rosa, o chi comprende il mio colore preferito. Il mio riccio quando è più ribelle, più all’aria, più riccio. È sapere che una cosa sarà l’ultima, è pregustare l’adrenalina di un concerto. È quando qualcuno è gentile in metro o sulla banchina in attesa del treno, è il complimento inaspettato. Mi piace il latte quando è bollente tanto da lasciare segni sulle labbra, come di scottature microscopiche, e quando ha la schiuma come al bar. Mi piace aspettare l’oroscopo di Rob, il giovedì a mezzogiorno, rendere un favore e sentire una voce al telefono. Mi piace quel momento in cui si scoprono intese con un’amica che non vedevi da secoli, quando assapori il tuo piatto preferito. Mi piace il tappeto di polline nonostante gli starnuti, il tipo carino che si siede accanto a me in treno, la sonnolenza ritrovata. È quel saper aspettare, quel non trovare le chiavi, è guardarsi da fuori durante la lezione di ballo e sentirsi felici, anche se non ti viene. È quel momento in cui ti senti sola, ma passa subito, perché sai che è di una bellezza struggente. È il gelato al pistacchio. È sedersi al cinema in fondo e osservare gli altri, è andare da Mariangela e vedere più vita in quella novantenne che in tanti coetanei, è darle un bacio sulle guance morbide e lisce. È sentirsi dire no, quando ne hai bisogno. Mi piace scoprire luoghi nuovi, che tutti conoscono, mi piace la lentezza, ma anche quando ho mille cose da fare incastrate alla perfezione e sentirlo, l’incastro. Mi piace quando parte la mia canzone preferita in un momento inaspettato. È vedere una casa e sapere che è no, è sentire la sveglia e sorridere perché ci si vuole svegliare. Mi piace quando arriva il bus proprio nel momento in cui arrivo anche io. È quel profumo che mi fa scattare, è quando sale l’amore per la città in cui vivo, così, dal niente. Solo da un tragitto a piedi per il centro. Adoro i mercati, con quel colore e gli odori che si mischiano, schivare la gente, andare di corsa e in senso opposto alla folla. È mettersi qualcosa di carino, è vedersi riflessa in un vetro e finalmente piacersi, un pochino.

Qualche mese fa:

Il profumo su un collo sconosciuto, quando il contatto fisico di un ballo arriva prima del suo nome. Quando qualcuno ti fa sentire bella e ti guarda con quegli occhi precisi. Mentre tu ti senti un cesso. I miei tatuaggi nuovi nuovi, il pensiero di quelli futuri, la mia pelle significata, ricca e scritta. La tensione dei muscoli quando cammino tanto – e intendo tanto davvero – il ricordo dei miei 900 km in 28 giorni, la voglia di rifarli e di non scordarli con il tempo che passa. Lo yoga che mi riporta alla vita e la fatica di questa disciplina sconosciuta a chi non la pratica. L’influenza che mi ha costretta a letto per una settimana: l’ho odiata, ah se l’ho odiata, ma ora godo di più di ogni singolo momento attivo e iperattivo. Ed è stato come purificarsi per la primavera. I cappotti rossi, il rumore frusciante sul treno, la canzone che capita al momento giusto e rende bello un lunedì mattina a Milano. I mantra, le amicizie straniere, gli odori indiani, i viaggi ancora da programmare. Scoprirsi, indossare un orecchino, scrivere di getto, riordinare la stanza. La mia amica di 89 anni, la mia sintonia con lei, le lunghe chiacchiere, la psicologia spiccia, l’affetto senza vincoli e contropartite. Dormire due ore, dormire nove ore. Attendere ed essere impazienti.

La sua eleganza

ballet-545289_1280Mariangela è bellissima, nei suoi 89 anni.

Quando arrivo, che sia in forma e seduta al tavolo con le altre due compagne di stanza, o che sia a letto febbricitante, lei è bella.

La luce che esce dai suoi occhi – complice anche quell’azzurro quasi trasparente – il sorriso e la cura che ha delle piccole cose sono le parti che compongono la sua figura: piccolina, rugosa, all’apparenza fragile.

Quando parla di funerale e morte, mi si inumidiscono gli occhi e le dico che senza di lei non posso proprio immaginarmi: quel breve momento del sabato è prezioso, ricco, unico, intenso. Mi piace vederla con il rossetto rosa delicato, le sopracciglia disegnate a matita. Mi piace quando dice che si sente amata, quando mi dispensa suggerimenti e consigli, quando mi permette di vedere la vita dopo averne vissuta una buona parte.

Entro da quella porta, ci assestiamo un attimo, ma si crea subito un filo magico, tra i miei occhi e i suoi, dal quale passa tutto ciò che ci accomuna e ci rende amiche. La visione della vita, le insicurezze, le ossessioni, le passioni. Tutto così vero, così misteriosamente incredibile. E si ricorda ciò che le dico, sempre. Non c’è vuoto di memoria che tenga.

Nossignore. Sa come mi sento e che settimana ho avuto ancora prima che io stessa riesca a comprenderlo. Oh e la sua ironia! Quanto è semplice e potente, questa ironia. Dice che le mie lettere sono come una medicina, lei – invece – è la mia medicina del sabato.

Balla, balla, finché puoi – mi dice – e io perdo le paranoie su capacità e bellezza. Ascolto lavoce di chi sa quali sono i rimpianti, quali le cose importanti, che comprende le inutilità di certi freni. E allora penso a lei e ballo, penso a lei e mi butto senza paura, penso a lei e mi chiedo: cosa mi direbbe?

Cosa direbbe a Ester, che ha l’ansia che le mangia lo stomaco e la sveglia nel cuore della notte senza motivo? Che ha l’ansia per l’ignoto quando questo decide di travestirsi in una delle sue molteplici forme come amore, sesso, lavoro? Cosa direbbe a Sara, quando traballante non capisce quale sia la sua strada, ma non sceglie, a causa di quella voglia di provare tutto, di quella terribile sofferenza che le procura la perdita di staminalità, o – detto altrimenti – la necessità di abbandonare qualcosa e perderlo? E a Daniele? Quando vorrebbe capire perché diamine si sia sposato e come fare per uscirne intero, lui, la moglie, forse un’altra – se c’è. Mariangela capirebbe anche Alice, quando ritorna adolescente e primaverile per uno sconosciuto, o quando ancora pensa di avere una parte da creare, plasmare e da mostrare. E accarezzerebbe delicatamente anche Giada, tutta frigorifero e disturbi.

Mariangela li contiene tutti, comprende ogni cosa nei suoi 89 anni, nella sua eleganza, nel suo tailleur giovanile. Me la immagino a teatro o per le mostre europee. La vedo stretta nel suo matrimonio, ma dura e tenace con tutti, la vedo orgogliosa del figlio, la vedo anoressica di sentimenti, schiva e bulimica di entusiasmi. La riconosco nei suoi silenzi, la ricostruisco dai pochi racconti e ricordi, le metto addosso un po’ di ciò che sono io e mi faccio regalare quel tanto che basta di lei.