– Guarda che in Cina è un casino.
– Sì, in Cina.
– Cerca di informarti bene, prima di partire.
– Papà, vado in Africa… mi sembra da tutt’altra parte, no?
– Sì, ma se arriva…
– Se arriva esattamente dove devo andare io, cambio meta, non ho vincoli.
– Sì, perché in Cina hanno chiuso: proprio chiuso.
– Ho visto, tengo monitorato.
– Ecco, mi raccomando.
– Non chiuderanno mica tutto! Sceglierò un Paese dove posso andare, no? Il mondo è grande!
Questa conversazione – che forse aveva parole diverse ma lo stesso senso – si è scolpita in testa come se avessi una tipografia con le lettere in metallo direttamente nel cervello. Se le cose fossero andate diversamente, me la sarei dimenticata di sicuro, chi può dirlo? Avrei magari sorriso. Ma le cose sono andate come mai e poi mai la mia mente avrebbe potuto immaginare: non voleva immaginarlo? Non ne aveva gli strumenti? Non importa. Hanno chiuso tutto, anzi hanno chiuso l’Italia per prima. Ai tempi di questa conversazione era ancora gennaio, dovevo ancora andare in Burkina – non avevo ancora spostato meta né data – avevo come sveglia la canzone Buon Viaggio di Cremonini, che è una cazzata ma che ci stava bene e con quelle parole andavo a correre. A quest’ora cazzo se sarei stata agitata! Sarei stata isterica, a casa dei miei dal 20 marzo, avrei comprato uno zaino della Decathlon da 50 o 70 litri – ero indecisa – ché il mio viola è ormai da mandare in pensione, avrei cercato un pc portatile leggero ma resistente mettendoci ore e sarei andata in quel negozio consigliato dalla mia insegnante di fotografia per acquistare un obiettivo usato stando attenta alle cifre e ai conti ché una cena fuori o un acquisto troppo caro erano ai miei occhi un taxi in caso di bisogno, un ostello se non avessi trovato la scuola, la fattoria, l’ospitalità in cambio di lavoro – che poi avevo capito che non so fare quasi un cazzo – avrei ascoltato le canzoni di chi parte, avrei tormentato con messaggi di ansia sia Mara sia Valentina, sarei stata isterica, con lo zaino fatto e rifatto quasi mille volte. Pesa troppo, non posso non portare questo e quello, Ele ma che cazzo di idee ti vengono?
Avrei salutato Pavia sapendo che probabilmente non ci sarei tornata più o quasi. Avrei salutato Silvia. Avrei salutato. Avrei litigato di sicuro con i miei per una convivenza non abituale. Avrei chiesto a chiunque di leggermi le carte e avrei consultato oroscopi. Avrei perso il fuoco della faccenda per poi ritornarci sopra. La notte prima della partenza non avrei chiuso occhio. Non so tutto quello che avrei dovuto fare in questi giorni, ma so che a febbraio dicevo a Valentina: io quel giorno impazzirò! Sono agitata adesso, figuriamoci il 15 aprile, come sarò messa! Respira, mi avrebbe scritto Mara e avrei pianto nel salutarla, quasi di sicuro. Avevo scelto il 16 aprile per scaramanzia: mi sono laureata quel giorno, alla specialistica. Mi sono laureata anche il 16 dicembre. Abitavo al civico numero 16 e il 16 febbraio 2017 ho iniziato a lavorare nel posto che ora ho lasciato e che è stato il solo luogo lavorativo che abbia saputo riappacificarmi con l’ufficio, con colleghi, capi, con Milano, con l’agenzia di comunicazione, con il marketing, con l’appartenenza ma soprattutto con me stessa.
Avrei salutato i colleghi di persona, magari ci scappava un aperitivo al Magentino, forse, e avrei salutato il figlio di Laura andando a caccia di nutrie. Invece ai colleghi ho mandato una mail – una mail lunga e forse pure un po’ melensa come solo io posso fare – e con il team ci siamo salutati con 4 schermi sul pc. Avrei fatto scalo a Bruxelles e alle 16 sarei arrivata ad Accra – alle 16, buffo! – poi era tutto ignoto. Sarei stata nella capitale? Sarei andata subito a N.? Non lo so, lo avrei deciso dopo il 20 marzo, probabilmente. Il mio compleanno, il 14 giugno, sarebbe stato in Ghana, magari vicino a un altro giorno di passaggio verso un altro Stato, forse, chi può dirlo. IO A QUEST’ORA SAREI STATA ECCITATA, ELETTRICA, EUFORICA. LO SAREI STATA PER TUTTO MARZO: AGITATA DA DOVER CORRERE PER PIÙ DEI SOLITI 10 KM ALLA VOLTA.
Avrei abbracciato i miei all’aeroporto, forse mia sorella si sarebbe presa un giorno di ferie per accompagnarmi anche lei. Avrei urlato la mia felicità a chiunque – ma anche la mia ansia, diversa da quella attuale, ovviamente – e mi sarei calmata nel tempo, entrando in un flusso che conosco, in parte. Sarei stata confusionaria, imprecisa, sarei arrivata all’ultimo momento con tutto, con il visto forse, non con le vaccinazioni: quelle le ho qui, in frigo: colera e tifo. La febbre gialla è un libretto che devo sempre portare con me, che dice che sì, sono coperta. Sarei impazzita per trovare un’assicurazione sanitaria decente, per un anno, per più paesi così diversi e senza sapere nemmeno quali. Avrei avuto la residenza dai miei: anzi quella ormai è là. A settembre mi scade l’abbonamento a workaway, ma magari allora di settembre avrei avuto i miei contatti e nessun bisogno di usare quella piattaforma. I pensieri si sarebbero accavallati e io – refrattaria alle to do list – sarei morta di cose da fare, non fatte, urgenze che avrebbero potuto non esserlo e magari mi sarei pure arrabbiata o disperata e ora – ora – se ci penso sorrido, ché alla fine sarebbero state solo cose bellissime. Sarebbe stato il mio momento e lo avrei saputo perfettamente. Lo avrei saputo come si sa una cosa che si aspetta e che a modo mio ho costruito, anche se non sembra o non si vede. Lo avrei saputo come sapevo che sarebbe successo, da quando nel 2015 due donne incontrandomi in Brasile a Ilha Grande mi chiesero: come ti immagini tra 5 anni? E io, in modo naive, ho risposto: viaggiando e scrivendo.
Ero già in viaggio.
Come quando in Tanzania nel 2017 ho incontrato una coppia che stava viaggiando da un anno e io mi sono sentita come se fossi già loro, già in viaggio.
Già in viaggio. Ferma ma in viaggio ci sono comunque e ci siamo tutti. Devo solo chiudere una mappa e aprirne un’altra, pensando che comunque sarà altrettanto ignoto, sarà un cambiamento – diverso ma dovrò comunque cambiare ogni cosa – sarà un nuovo inizio e un nuovo ciclo in attesa che si possa acquistare nuovamente un biglietto aereo di sola andata (l’emozione che si prova pigiando quel tasto è infinita: credo di aver lanciato un urlo quella sera).
Potrei scegliere una città a caso qualsiasi, in Italia. Una che mi piace o che vorrei conoscere.
La parte difficile – ovviamente – sarà il lavoro, che comunque ripartirà: eccome se ripartirà e qualsiasi esperienza andrà bene, davvero. A volte penso di sentirmi addirittura più protetta in questa sospensione e che le cose si faranno complesse quando davvero avrò davanti decisioni da prendere, ma anche tante variabili che non dipendono da me.
Ho scelto tre carte, recentemente: l’appeso per “come mi sento/dove sono oggi”, la ruota per “dove vorrei arrivare” e la papessa per “come ci arrivi”. Erano carte scoperte, ma non le conoscevo: mi sono lasciata ispirare dai colori e dalle forme. La ruota era disegnata come se fosse d’acqua ed è così che vorrei essere: fluida. La papessa mi sembrava un mondo con tante strade ed è così che vorrei arrivarci: camminandoci sopra.
Oggi sarebbe stata la mia notte, il mio giorno l’indomani. Forse le carte sarebbero state altre. Non avrei chiuso occhio, come per ogni sacrosanta vigilia. Il mio zaino chiuso e pronto mi avrebbe guardato, in attesa vicino all’ingresso. Avrei fatto come sulle montagne russe o prima di un tuffo dagli scogli.
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