Anniversario

10380826_10152905239020209_6853920143649821555_oUn anno fa partivo per l’esperienza più intensa, trasformante e introspettiva della mia vita. Non sapevo che sarei arrivata a Finisterre, nei piani c’era solo Santiago, e temevo di non farcela in quei giorni a disposizione. Avevo paura del fallimento.

Un anno fa incontrai le due donne con cui ho intessuto più relazioni: Lily fino a Grañón (10 agosto) e Gyongyi, con la quale sono riuscita a condividere l’arrivo a Santiago. Ma prima ancora devo ringraziare Mara, senza la quale non avrei fatto nulla: mi ha dato l’idea. E l’idea è tutto.

Per festeggiare questo “anniversario” ho deciso di condividere alcune pagine e pezzetti del mio diario di quei primi due giorni, senza correggere o modificare nulla.

Il Cammino ti dà ciò di cui hai bisogno (e non sempre è ciò che vuoi).

 

31 luglio 2014 (partenza da Malpensa verso SJPDP)

La parte più difficile è abbandonare i propri pensieri, le aberrazioni della mente. Non riuscivo a farlo e – mentre ogni cosa sembrava precipitare – trattenevo me stessa. Non riuscivo a lasciarmi andare al Cammino.

In parole pratiche esistono quei piccoli fastidi che, quando meno te lo aspetti, creano un’ansia inspiegabile. Non riuscivo – oggi – a lasciarmi andare all’imperfezione.

La realtà del Cammino è anche la realtà dell’imperfezione. Dimenticanze: una, due, tre. Cavigliera, un paio di calzini e il marsupio. Tutto a Pavia, nella mia casa da un anno. Dove hai la testa, dove? Tutto si risolve, l’amaro resta, anche se si tratta di una sciocchezza.

Lo zaino pesa, quei 7 kg che non volevi raggiungere, ma proprio non sai cosa togliere. I pantaloni di cotone: lo sapevi che pesano, che non si asciugano mai. Non potevi investire in quelli tecnici? Il libro scelto con cura amorevole e lasciato a casa per non fare peso, il Terminal sbagliato e l’ansia di perdere l’aereo… piccoli accidenti. Solo piccoli accidenti che tirano fuori vecchie incapacità.

Il bisogno della perfezione, la voglia e la necessità di non sbagliare. I piccoli rimpianti e rimorsi qui si manifestano con poco, ma nella vita di 32 anni che ho addosso sono vari, diversi, enormi e a volte latenti.

Ebbene, arrivata a Bayonne dopo due aerei e un autobus, la mia mente si appiglia a più non posso a questi accidenti e li trasforma in paranoia e insicurezza.

L’attesa logora. Sono arrivata alle dieci e trenta e devo attendere fino alle 15.00. Un rivolo di sudore perplesso si accosta al volto. Visitiamo Bayonne, sfruttiamo ciò che c’è, pranziamo con gusto. Sfoghiamoci con chi conosce i tarli della mia mente e svuotiamo il cestino. Strizzati Ele, prima di arrivare a SJ. Liberati delle tue zavorre di perfezione e ascolta, annusa, respira, assapora, custodisci, parla, tocca, scuoti te stessa per scrollare di dosso la polvere.

Non esiste lo zaino perfetto, non esiste la vita perfetta. Chi cammina con te si porta dietro le sue esperienze più o meno pesanti, più o meno felici e tristi, dolorose, piene. In pochi momenti avrai la possibilità di riempirti di sensazioni diverse e conoscere gente che per chi resta fermo, gli ci vuole una vita!

Infine si è formato un quartetto: io, Francesco (61), Lily (Ungheria, 31) e una signora ungherese dal nome impossibile, che si occupa di aromaterapia. Ha due figli di 15 e 20 anni, a casa. Si parla inglese, a caso, ci si mescola, si condivide, ci si aspetta. A volte invece si scappa. Si cena insieme e si fanno domande. E io intanto lascio andare, lascio andare sempre più.

Mi emoziono al primo sello (timbro), mi sorprendo per l’accoglienza e mi innamoro già del primo albergue che recita di lasciare fuori lo stress. Ci sono ottomila regole e non ti pesano per nulla. Niente scarpe, doccia fino alle 23 e non alla mattina, niente bucato e niente sveglia prima delle sette. Chi le sopporterebbe, senza lasciar andare? Senza entrare in questa dimensione dove tutto concorre a farti percorrere il tuo Cammino, dove la parola libertà acquista un significato inatteso.

La mia fretta, la paura di non riuscire a fare: “sono le 17.00, devo comprare il cibo per domani, devo prendere i bastoncini, devo, devo, devo…”. Fidati, prenditi il tuo tempo. Domani non potrò partire alle 6.00. Va bene, accettalo. Accogli senza drammi.

1° Agosto 2014 (Primo giorno di Cammino, SJPDP-Roncisvalle)

Stanotte alle 3.00 ero sveglia. Pensavo ai puntini. I giorni, i fatti della nostra vita che uniamo come fossero puntini, magari dopo anni.

Il mio pensiero stanotte era più nitido dello stato mentale attuale, dopo 1200 mt di dislivello positivo, 400 negativo e 7 ore e mezza di cammino forte. Penso al filo invisibile che unisce le cose: le vite, i racconti, le trame e le storie; e il filo che è teso tra una tappa e l’altra del Cammino. Il filo è il Cammino stesso. Non trovo altra logica. E non va nemmeno cercato, semplicemente si cammina. E si arriva. Quasi con sorpresa, di sicuro con fatica.

Io durante il cammino forse non penso. Non sono un soldatino meccanico in marcia, ma se mi chiedessi: “Ele, a cosa hai pensato?” posso citare solo pochi temi: scrivere, yoga, cosa fare arrivata a Roncisvalle, il sentimento lasciato da un panorama, la confusione con le lingue, la bellezza di condividere il Cammino con la ragazza ungherese di 31 anni, la piacevolezza della pausa, di un cappuccino o un panino al prosciutto. Siamo partiti in 4, ma poi ognuno ha il suo Cammino, il suo passo, i suoi accidenti ai piedi, alle gambe, alla schiena, la sua personale quantità di sete e fame. Le sue necessità.

Il caleidoscopico mix di pellegrini altro non è se non una metafora della vita, come è chiaro, senza bisogno che lo dica io. Chi va più veloce, chi ha 7 kg, chi 14, chi preferisce avere la tenda e chi ha magliette da vendere. C’è chi si trucca, chi dice Buen Camino, chi andrà a messa stasera, chi pesa 100 kg e chi 40, chi ha gli scarponi e chi le scarpe da running…

Nonostante il Cammino sia stabilito, io sento che oggi ho scelto. Ho scelto il giorno, la compagnia – almeno tra quella a disposizione – la strada tra due opzioni, le pause, il cibo, la dose di acqua e la frequenza. Ho scelto silenzi e parole.

Posso parlare della fatica di oggi come di una scoperta scontata, della facilità con cui si può faticare se si è motivati e convinti, della bellezza di una nebbia struggente che dava quel senso di confini del mondo. Ho goduto per piccole conquiste ed ero intenta a pensare solo all’acqua, al cibo, alla strada. Un continuo fiorire di novità lungo una via sempre uguale: pecore, mucche, cavalli e distese verdi e follie di dirupi, boschi dove streghe e maghi si danno appuntamento per i loro Sabba. L’unghese (Lily) parla la mia stessa lingua: non si accontenta e abbiamo la stessa esigenza di donne autonome e indipendenti. Ognuna a modo suo.

Al rifugio Orisson un pellegrino ha lasciato una traccia nel guest book: “Quando pensi che sia finita, è proprio allora che comincia la salita. Che fantastica storia è la vita”. Ho sorriso tutta sudata, non avrei trovato parole migliori per dirlo. Non avete idea della pace e del benessere che provo camminando, anche quando vorrei solo arrivare. Non immaginate quanto sia bello e dolce il rumore della pioggia su vetro e legno di questo albergue, dopo cena, in uno stato di sonno e torpore. Tic, tic, tic come di dita che picchiettano sul palmo della mano velocemente, indice e medio, a occhi chiusi.

Sono gli spazi a fare la differenza: camerate, cene del pellegrino e la strada. Gli spazi e la consapevolezza. Viaggiamo soli, ma ancora da sola non sono mai stata nemmeno per un minuto. Viaggiamo soli come arcipelaghi, con l’altro lì, basta un Buen Camino a volte, altre qualche parola in più: un aiuto in lavanderia, una cortesia lungo la strada o la comune nazionalità o ancora il bisogno di informazioni. Sai quando vuoi parlare, sai quando vuoi stare zitto, sai quando e con chi attaccare bottone. Lily era l’ultima ragazza con la quale avrei pensato di stringere amicizia.

Santiago – i primi due giorni di Santiago – sono gli incontri casuali, ma tra i quali un po’ scegli per camminare insieme, per condividere qualcosa, che sia una cena o un semplice saluto. Sono incontri che tornano, ti perdi, ti rivedi, ti ritrovi. Ma non sai prima quanta profondità acquisterà quel legame. Dipende da te e dall’altro, da quanto si investe, da quanto ci si trova bene, da quanto si è con amici o soli. Puoi scegliere, ma è qualcosa di più. Scegli chi, come e quanto. Quanto vuoi investire di te stesso, del tuo tempo e del tuo Cammino?

Io mi torturo per un senso, io mi metto al centro, non ne esco. Ma quando cammino la mia mente si ferma, lascio parlare la mia me più semplice. Lascio che il senso sia la semplicità.

L’inatteso

CIMG8052Mi ero preparata a un giorno senza ansia. Mi sono svegliata quasi in ferie, con la sensazione di essermi riappropriata di otto ore, non più in vendita. Questo venerdì è mio, mi sono detta. Ho iniziato da ciò che è più importante, seguendo il consiglio di Marina, che ha stravolto la prospettiva classica.

Incanalata nella mentalità che sia il dovere ad avere la precedenza, non mi sono mai posta il problema di cosa sarebbe accaduto invertendo i ruoli. O meglio, cambiando le etichette: “piacere” e “dovere” con “importanza”. L’importanza apre un nuovo cunicolo: importante per sentirmi bene, per guadagnare, per avere la mente serena, per sentirmi appagata, per sorridere, per provare piacere. Da dove inizio?

Inizio a leggere qualche pagina, scrivo un post per il blog, porto avanti un compito di scrittura. Poi passo al lavoro: qualche notizia, riletture, correzioni. Con calma e consapevolezza. E mi accorgo di una cosa. Quando scrivo per lavoro non passo il tempo a pensare di dover e voler finire, fino a che poi finalmente scriverò qualcosa per me stessa. L’ho fatto prima. E l’ho fatto davvero. Altrimenti diventa una rincorsa a qualcosa che non farò mai. O quasi mai. Perché i lavori remunerati avranno sempre la precedenza (come è giusto che sia) e si accumuleranno all’infinito, e ci sarà sempre un nuovo lavoro che mi fa comodo.

Ti fa comodo perché asseconda una tua paura. Quindi procrastini, ritardi, posticipi. Sai che non verrà mai quel momento tutto tuo. Perché dopo i lavori remunerati ci saranno la casa, le commissioni, due passi a piedi, lo sport, gli amici, la telefonata, le chiacchiere con tua madre.

Ciò che ho provato si chiama rilassatezza, ma anche senso di riconquista. Un passo dopo l’altro, ciascuno spontaneo e naturale, senza la sensazione di dire “dai che ho quasi finito, dai, dai che è tardi…”. Mi evito anche una buona dose di palleggi tra lavoro, social e rete, tipici della scarsa concentrazione.

Ma le sorprese, venerdì, non erano ancora finite. Esco per due passi semplici in centro, dopo pranzo. Al ritorno incontro una donna con la conchiglia del Cammino appesa allo zaino. Non è la prima volta che accade, ma questa volta è accanto a me, non sto andando al lavoro di corsa, non è troppo tardi quando vedo il simbolo. La fermo, le mostro il mio braccialetto pieno di frecce gialle e in un attimo si chiacchiera. Con uno sforzo rispolvero l’inglese, dall’ingranaggio lento perché non lo uso mai. Lei parla mischiando italiano, spagnolo e francese. Poi si assesta sull’inglese.

Mi sento a metà strada tra il Cammino e la vita reale, demarcata. Come se uno specchio mi attraversasse lungo il piano sagittale: per metà respiro quell’atmosfera, per metà sono nella città in cui vivo. Mary è partita da Monaco. Ha fatto Innsbruck, Brennero, Verona, Piacenza, Pavia, sopra a una bicicletta in cui c’è più della sua casa. Cerca Cammini non convenzionali e vive in Francia, vicino a Bayonne. La guardo con due occhi che brillano, le racconto delle mie esperienze e si inizia a parlare, proprio come sul Cammino. Si parla davvero. Si è veri. Si parla di sé stessi, di cose semplici, del vero e dell’azione, della riflessione. Niente di pesante o esistenziale. Ma ci si guarda negli occhi. L’accompagno da Gigi, per farsi aggiustare un pezzo della bicicletta e decido di aspettarla, per poi andare insieme a Santa Maria in Betlem dove troverà un alloggio.

Qui prevale il mio lato quotidiano, ossia la consapevolezza di poterla ospitare, ma di non saper gestire quella visita inattesa, nelle mie abitudini. Le offro un cappuccino e le dico il vero – ancora una volta – per fare ammenda del mio comportamento poco pellegrino. Lei è così felice: vuole farmi capire che sì, va bene anche così. Non devi dimostrare nulla, Eleonora.

Mary mi chiede se farò un altro Cammino, quest’estate. Il Brasile sembra così piccino (nonostante il mio sincero entusiasmo) di fronte alla potenza di quell’esperienza, che per un attimo esito, poi spiego, precisando di voler fare la via de La Plata l’anno prossimo. Lei, invece, mi fa sentire su un percorso. Lei, che ha vissuto sei anni in Brasile, mi suggerisce, mi racconta, mi galvanizza.

Sorrido pensando che sia il tipico regalo del Cammino (è la terza persona che incontro e conosco in poco tempo che ha vissuto in Brasile, insieme a Gabriella e a una ragazza del corso di yoga con il fidanzato brasiliano). Là, in quella terra, Mary ha fatto la bibliotecaria per il German Center… (non ricordo bene). Mi racconta di aver iniziato a scrivere un diario dall’età di 12 anni e di non aver più smesso – o quasi – e scrive, scrive sempre. Sono emozionata, penso a Gyongyi, e Pavia si trasforma in una città del Cammino, io sono qui e là allo stesso tempo.

Nessuna chiacchiera vuota – quanto le detesto! Pur apprezzando le risate e i momenti frivoli – nessuna leziosità, finta gentilezza, bellezza artificiosa. Due donne che si incontrano, si mescolano e ripartono. Un contatto su un foglietto è ciò che rimane. E da lì poi…

Camminare è spogliarmi

leaves-273404_1280Sento di aver quell’urgenza di cammino. Anzi, di Cammino. Perché per me ormai ha un ruolo quasi sacro, purificatore. Un rito che non è tale, ma che si scopre e ti scopre ogni volta diverso. Mi serve per scrivere, per sentire quell’entusiasmo che permette il fare e il vivere.

I loop della mente si scollano, la smettono di creare vortici inutili e per lo più sterili. Tutto si fa chiaro. Quante volte mi sono emozionata per minuzie. Non sono fatti: potrei parlare delle albe attraversate, e allora lì sì che la bocca si apriva un un oh di stupore. Ma in realtà bastava un sasso, chilometri pieni di verde inaspettato, bastavano quelle farfalle che camminavano volando insieme a me, i magici boschi della Galizia o bastava sentire quel muscolo che si muoveva in tensione, quella voglia di andare e andare, ed ecco che il mio viso si emozionava. E si commuove ora al ricordo.

Ho appena letto un articolo. Un’intervista a Le Breton, autore di “Il mondo a piedi. Elogio della marcia”. Ritrovarsi, in quelle parole, mi ha portato a rivivere quei momenti e a volerne parlare e scrivere ancora e ancora. A voler di nuovo mettermi in marcia. Non sempre sarà come sul Cammino francese, dove la perfezione di ciò che ho avuto in dono è stata unica, ma camminare – soprattutto per molti giorni, quando possibile – mi permette di spogliarmi. Di eliminare ogni menata, ogni rovello cerebrale, ogni sovrastruttura moderna e quotidiana.

Tutto ciò che ci preoccupa qui, non ha più alcun senso quando cammini. O meglio, i problemi non spariscono per incanto, ma si ridimensionano, si fanno concreti, hanno contorni e confini. E sai che puoi vedere oltre quei confini, che puoi affrontarli in modo diverso, prendendoli da una nuova angolazione.

Mi sono lasciata alle spalle le inadeguatezze che si vivono qui, il senso giudicante, la pressione degli altri, ho eliminato il valore degli oggetti, del possesso. Ho perso nella natura il senso del Sé, per diventare tutto. Ho sentito dio, pur non credendo in nessuna chiesa. Eppure era ovunque, ed era impressionante la sua forza. Lo si poteva sentire e toccare. Se qualcuno mi dovesse chiedere la prova dell’esistenza di un dio, ecco, gli direi: fai il Cammino. Sono senza confessione e senza chiesa, ma dio lì c’è davvero. Lo vedi, lo senti, lo annusi, lo assaggi.

Ho avuto in dono Gyongyi. Volevo stare sola perché amo esserlo. Perché mi piace la compagnia di me stessa. Eppure, avevo bisogno di imparare quella gioia della condivisione che avevo allontanato. Ho apprezzato il senso di famiglia itinerante, i gesti tra pellegrini, le nostre meschinità – che escono e ci sono sempre, anche lì – il ritrovarsi sempre, l’essere consapevoli l’uno dell’altro.

Ho apprezzato quegli sguardi che sui treni spariscono, si perdono nei vuoti, perché nessuno, quando sale sul treno delle 8.02, nessuno pensa alla grandezza e semplicità della sua missione e quindi della sua vita. Nessuno pensa al passo, al presente, al qui e ora. Eppure, anche andare al lavoro è un’impresa, quanto fare 900 km a piedi.

Quando cammini pensi solo a ciò che stai facendo e se pensi ad altro – e lo fai – è un flusso che ricarica, che si perde o si rafforza, a seconda di quanto utile e benevolo sia. La sfida è mantenere questo potere, quando si torna. La sfida è continuare a camminare o trovare come farlo da qui, dal mondo normale, quando tutto è atteso e aspettato, quando la libertà non è più assoluta e allo stesso tempo precisa e sicura.

Sul Cammino non sai dove dormirai o mangerai, né chi conoscerai quel giorno o che posti vedrai. Sai solo che camminerai fino al tuo limite, superandolo ogni giorno un po’. Eppure la libertà non è vagare, non è confusione, non è insicurezza. Hai quella freccia gialla, la magia dei boschi e delle mesetas, hai il tuo corpo che impari a sentire e conoscere, hai la tua casa sulle spalle e quanto ti serve a portata di mano. Hai aiuto dove nemmeno te lo aspetti. Hai una libertà sicura, determinata, forte, muscolare.

Per questo quando torni, se torni – perché pellegrini lo saremo per sempre – non ti accontenterai mai più, ti amerai così tanto e amerai così tanto ogni espressione di vita da non poter più fare a meno di sentirti vivo e grato. Io continuo ad avere i miei giri nella testa e affronto quotidianamente i problemi con me stessa, continuo ad acquistare robe inutili e apprezzo la vanità di un abito o di un taglio di capelli, ma so che posso spogliarmi dell’inutile quando voglio, e che non ne sono posseduta.

Nulla mi possiede e so quanto sia grande ed enorme il potere della mia mente e del mio corpo, da soli, ma soprattutto uniti nell’azione, nell’atto, nel passo e nel presente.

Flussi di pensieri o coscienza sparsa

stones-167089_1280Il ritorno è sempre caos. Che sia per un mese, nove giorni o un anno. Credo sia più determinante e incisiva l’intensità dell’esperienza. L’inaspettato o l’inatteso, ciò che non è stato previsto. Alice direbbe che la sua mente sembra seguire questa strada. Prevede una reazione, la studia, la esamina, la sminuzza in parti piccole e certe. Non ha dubbi. Alice sa di voler tornare a casa, di avere le gambe stanche e impazienti di muoversi a un altro ritmo, sa di essere lieta di assaporare le vecchie abitudini. Si sente in pace Alice, all’idea di tornare. Quel viaggio tanto più perfetto quanto più è circolare: desiderio ardente di partire, gioia all’idea di atterrare di nuovo tra amici, lavoro e appuntamenti prestabiliti. Pochi giorni a casa, e già qualcosa delle sue previsioni le sfugge. Si sente sollevata all’idea che quel Cammino le manchi di nuovo e che partirebbe ancora senza esitazione. Per qualche istante, in quei nove giorni, aveva temuto di aver rovinato una perfezione, la bellezza intatta del suo viaggio estivo. È disorientata, Alice, perché quel tornare le sembra insipido, nonostante quei due passi di danza, la sua amica di 89 anni e la felicità per le piccole cose, un teatro, una risata, il risveglio.  Quelle piccole felicità che l’hanno tenuta allerta, vigile, senza rammarico. Accarezza quella sensazione piacevole, ogni volta che ripete agli altri – provandolo davvero – che il Cammino ti riporta alla vita.

Si sente ridondante, piena, sente un’inattesa felicità per aver scampato il pericolo di aver sprecato un’occasione, credendo di tornare dicendo che no,questa volta non era stato perfetto, non c’era stata alcuna magia, questa volta non aveva funzionato. Ma dopo questo primo sentore di previsioni errate, ecco, a cascata arrivano tutti gli altri sentimenti per una portentosa adunata. Cosa vorranno? Si chiede Alice strabuzzando gli occhi. È stata assente solo per nove giorni, in cui la fatica per qualsiasi cosa è stata la Regina di Cuori del suo estraniarsi. E invece sono lì: una leggera ansia per il lavoro, percepita come il senso di vuoto che provi sulle giostre, nervoso verso sé stessa, insoddisfazione, mancanza, assenza, e poi vita e pienezza e turbamento. Tutto insieme. Bella e tristemente sciupata, confusa, felice, luminosa, melanconica, strana. Pausa. Risale lentamente ogni sensazione, ciascuna le appare con un sonoro “pof”, per poi andarsene dopo una sosta più o meno lunga. Ripensa a tutto e ringrazia: la fatica è la chiave. La salita è la nuova conquista. Il primo Cammino le ha detto “goditelo”, con tutti quei “Buen Camino” che uscivano dalle bocche e dai muri. Il primo Cammino le ha detto tante cose, ma Alice pensa a quell’eccitazione per il percorso, la terra, il muscolo, il km. Alla bellezza del tragitto e alla rabbia dell’arrivo – inattesa, inaspettata. Mai Alice avrebbe pensato di provare rabbia arrivata a Santiago. Mai Alice avrebbe pensato di doversi arrendere a un arrivo diverso, dopo 800 km, bloccata da qualcosa di unico, mai avrebbe immaginato, nemmeno il giorno precedente, che il pianto sarebbe arrivato in Cattedrale, durante la messa, un misto amaro di profonda angoscia, tristezza, ira, rimpianto. Mai avrebbe pensato di arrivare alla fine del mondo, di considerarlo il suo arrivo e di essere serena e appagata, là. Sull’Oceano, con la conchiglia perfetta tra le mani e un senso di protezione e sicurezza mai sperimentato prima.

Il secondo Cammino, invece, le ha detto “vai avanti, vai più in là, vai oltre”, grazie al nuovo saluto – Ultreya – emerso solo ora qui e là e reso tangibile e concreto da un anello. Alice lo porta sempre con sé, con tutti i simboli del Cammino e quell’augurio che le serve proprio ora che si sente ferma, ora che vorrebbe trasformarsi, e si accontenta di esternarlo con nuovi capelli e idee da mettere sulla pelle. Ma non basta: Alice ha sempre detto di non amare gli anelli, non ne ha mai avuto uno, se non da bambina, o quella fedina della sua prima cotta. Eppure, quando ha visto quello del Cammino, non ha avuto dubbi. Era perfetto. Il Viaggio dei “mai” disattesi o dei “mai più” detti e ritrattati. Dopo la perfezione, dopo che ogni cosa ha seguito fluidamente il passo di Alice, ecco la dissonanza, la difficoltà di accettare, pur nella necessità di doverlo fare. Alice sapeva di dover lasciare andare senza essere passiva, ma giocando di equilibrio e di fatica. Sente l’urgenza di novità e cambiamenti premere allo stomaco, ora che è a casa. Si sente seduta su un ingranaggio pronto a sbloccarsi, ma ancora gracchiante e immobile. Alice, per ora, è nel suo paese.

Una cantilena di mai

10819589_10153065294665209_139836670_oUna serie di MAI ripetuti come una cantilena. Questo Cammino è stato una sorta di elastico che si tende e si rilascia, si contrae e rilassandosi ammorbidisce i MAI, quelli non detti, quelli urlati, quelli anche solo pensati o scritti. Solo 250 km da Ferrol a Santiago, continuando per Muxia e Finisterre. Sembrava una allegra scampagnata per chi – solo quattro mesi prima – aveva appena percorso i 900 km del Cammino francese. Eppure non è stato semplice, e tutti i MAI che mi hanno accompagnato ancora rimbombano nella mia testa, quasi volessi pentirmi di averli esplicitati. Mai più d’inverno, ché d’inverno il freddo ghiaccia il sudore e la condensa si deposita ovunque, d’inverno lo zaino – quella casa che ti porti appresso per tutti i giorni di cammino – è per forza più pesante. Mai più nella stagione in cui l’abbigliamento rende i movimenti impacciati, e ogni cosa acquista un volume e una consistenza importante, pesante. Togli quando sudi, metti quando il gelo ti coglie d’improvviso. Maglietta termica, pile, giacca, scaldacollo, fascia – che assorbe il sudore, allontana i capelli e copre le orecchie – guanti, che ogni tanto uno si smarriva chissà dove. Togli, metti, sfila, fermati, fatti aiutare. E intanto lo zaino si gonfia oppure ti gonfi tu. Mai più un Cammino corto, ché nella brevità non riesci nemmeno ad avere il tempo di liberarti delle sovrastrutture mentali, quelle abitudini radicate che giacciono lì senza che nessuno lo sappia: la preoccupazione inutile, la fissa per un dettaglio, il giudizio, la paura, l’ansia da prestazione. Mai più così corto, perché coincide con veloce, o almeno così ti sembra, e allora vai come un mulo con la testa china, macinando passi e km con il tuo solo corpo, lasciando la mente senza il nutrimento di cui ha bisogno. Che tu vada veloce o lentamente, hai sempre quella percezione di affanno, quella dell’arrivo che conta. Mai più quando il freddo rende la meta poco morbida, trasformandola in qualcosa di spigoloso e arcigno, contro cui lottare ancora e ancora. La doccia gelata, il bagno esterno, un paesino sperduto, i riscaldamenti spenti o poco accesi, una logorroica hospitalera che ti fa sentire ubriaco. «Mai si trova riposo per la mente», sembra dire al tuo corpo già stanco ogni giorno di Cammino. Mai più senza allenamento, pensavo io, come se fosse questa la sola motivazione che rendeva duro il percorso. Mai più in gruppo – ah quante volte l’ho pensato, detto e ripetuto – perché moltiplica le fatiche invece di dividerle, per l’assenza di scelta, per l’organizzazione lenta, per le partenze e le rincorse, per quella mente poco libera di andare. Quattro persone, divenute cinque camminando, mi hanno protetta, sostenuta, aiutata, mi hanno fatto sorridere e ridere, hanno condiviso. La mia allergia al gruppo c’è ancora, da perfetta egoista solitaria che ama far da sé. Ma la sera, quando si rideva a cena, o quando si improvvisavano balletti tra la brina e il freddo mattutino, quando qualcuno ti metteva a posto la borraccia o ti aspettava o condivideva la sua vita negli aspetti più dolorosi, proprio allora mi scioglievo e volevo dare. Allora si manifestava in me un lampo di comprensione, destinato a sparire alla prossima costrizione. E di nuovo ancora un «mai più» faceva capolino, guastandomi, perché non c’era abbastanza tempo per accettare. Scegliere, muoversi, fare, ma accettare. In tutto questo andare è necessario accettare, anche i mai più, anche le resistenze, il muscolo che tira, il dolore fisico e mentale, le diversità, anche le scelte naturali che facciamo senza compierle o che compiamo senza farle realmente. È necessario cedere e andare oltre il limite. E ora, a casa, tutto quello a cui ho detto «mai più» manca, perché corrisponde a ciò che più mi ha permesso di imparare: l’inverno, la durezza, il freddo, la brevità del cammino e i miei cinque compagni di viaggio. I mai e i sempre – i mai più e i per sempre – servono solo per contraddirci ed essere incoerenti.

Magia incompiuta

CIMG7833Ha aperto le braccia per abbracciarmi, anzi no, come quando da piccoli si gioca a prendersi, come quando un uomo vuole proteggerti. Sono entrata in quegli occhi azzurri oceanici, mi ha parlato. Sì, per poco. Era il 22 agosto. Tra Triacastela e Portomarin. Ero sfuggente, ero determinata quel giorno. Ero euforica e accelerata. Ero sorpresa, sgusciante, accaldata, volavo sui sassi, sulle discese, sulla strada sterrata, sotto il sole e nel freddo dell’alba. Mangiavo chilometri, per mantenere una meta, quella decisa. E intanto pensavo, sognavo, creavo ideali mentali di un uomo che avrei potuto non rivedere. A Portomarin lui, lui c’era. Per caso. Non so come si chiami, non so chi sia. Ricordo gli occhi, i suoi 43 anni, le quattro parole scambiate mentre lui cenava con un amico. Resta un frammento onirico e sfumato. Una magia incompiuta.

Ed è solo allenamento

IMAG1942Ho imparato che non esiste il momento giusto nella vita, esiste il momento e basta, e va colto. Non era in programma di arrivare a Milano, non da subito per lo meno. Erano già le dieci, minacciava pioggia e io ero andata a dormire alle 5 dopo una notte di balli e sgarri. Però l’idea era nell’aria, l’ho solo seguita passo dopo passo.
Ho imparato che la fatica è nella mente e che quando sei piena di entusiasmo, quando ci credi perché lo vuoi, vai davvero avanti. Anche se hai dormito 4 ore e mezza. Ho imparato che alcune condizioni sono favorevoli quando meno te lo aspetti: clima mite, aria perfetta, niente pioggia
Ho imparato che bisogna dosare le energie e quando è pausa è pausa. Ho imparato che l’ambizione, o la motivazione, aiuta: non ci sono cazzi, avere una meta è importante. E lo è anche arrivarci. Il percorso va vissuto, ma senza meta non si è abbastanza motivati per proseguire.
Ho imparato che a volte il silenzio è più perfetto della musica, che a volte cantare e muoversi da soli per strada è liberatorio, che respirare allevia il dolore.
Ho imparato che non voglio conservarmi per dopo: ogni acciacco o ruga sarà il segno che avrò vissuto e rischiato. Che utilità c’è ad avere il piede intatto e perfetto se mai lo si è usato?
Ho imparato che anche quando ami la solitudine, è naturale volere compagnia
Ho imparato che quando una cosa è quella giusta, lo capisci al volo, senza dubbi.
Ho capito che quando raggiungi un obiettivo per te prezioso vuoi dirlo a tutti: la condivisione è metà della felicità. E te ne freghi se sei in giro per Milano in abbigliamento improponibile, con le caviglie un po’ infangate, qualche spiga sulla tuta e sudata da far pietà. Anzi, ne sei orgogliosa.
Ho imparato che gli incontri per me sono fondamentali e che dobbiamo risvegliare fiducia e umanità: domenica scorsa lo sconosciuto Andrea mi ha offerto la sua bottiglietta d’acqua e mi ha raccontato del suo pellegrinaggio di otto giorni, ieri Licia ha accompagnato una donna stanchissima, ma felice, alla fermata della metro più vicina, per tornare a casa. Mi ha detto che nulla accade per caso e che le porterò fortuna.
Ho imparato che la fatica è bella, la fatica è un balsamo e una cura
Ho imparato che se ripenso a quelle 5 ore non ho idea di cosa io abbia pensato per tutto quel tempo
Avevo quel sorriso, da quando ho visto il cartello Milano. E ho quel sorriso, quello che di solito si ha quando un uomo ti risveglia, quello delle endorfine e della scossa. Il dolore alle gambe e alle anche è passato immediatamente. Ho imparato che mi piace da morire essere folle quanto basta, che sto diventando quella che sono, che avrei voluto essere e che sarò, pian piano e sempre diversa. Non che quella di prima non fossi io, ma ero io del passato, in quel momento e in quelle circostanze. Ho imparato che non scambierei nemmeno le mie pippe mentali più malefiche per una vita tranquilla.
Ho imparato che a volte è inutile raccontarsela: non vedi l’ora di arrivare e quando leggi “Rozzano” inizia a sentirti felice. Ho imparato che poco prima del traguardo vai più veloce (mentre io spesso rallento, questa volta no):
Ho imparato cosa amo di me grazie al commento di una persona che mi conosce pochissimo: “sei un ragazza così curiosa della vita”, la stessa persona che mi ha detto che dovrei fare la scrittrice, con tenerezza.

È tutto nella nostra mente. O in una domenica di passi da Pavia a Milano. Ed è solo allenamento, pensa a quando sarà Cammino.

 

Qualche mese fa, su Gallizio