Solitudini

book-436507_1280La solitudine che cerco non è quella che trovo. Oggi è forzata, costretta, vincolata e limitata da quattro pareti. Non posso fare le mie lunghe camminate, né correre, né accontentarmi di un giretto in centro. E quindi la disprezzo. Non ne approfitto perché si trasforma in inettitudine e pigrizia. La postura, la stanza, la penombra, il computer, l’aria condizionata sono elementi che percepisco come malsani e portatori di noia.

Poi mi costringo a prendere contatti per un’intervista di lavoro, a pianificare il Brasile, anche se mi sembra di girarci intorno e qualcosa non convince. Infine arrivo anche sul blog. Aspetto che la giornata finisca. Lo sento dentro che la mia è un’attesa. Esco per un caffè e una Coca zero, uso whatsapp e cazzeggio in Facebook. Stavolta no, no che non la amo la solitudine, anche se conoscendomi non è che la sacrificherei proprio per qualsiasi persona o attività. La solitudine del movimento mi appartiene e mi fa godere della solitudine da divano/camera/cucina.

Oggi invece sono vagante, annoiata e mi viene appetito. La musica mi innervosisce e non ho nemmeno aperto il libro, nonostante non veda l’ora di procedere con “La donna giusta”, pieno di ciò che provo e vivo, pieno di considerazioni che quando alzo la testa mi convinco che siano i libri a sceglierci.

Un popolo di pagine che sfugge dalle mani sbagliate. Mi immagino Anna Karenina che si scosta, mentre le sorelle Lisbon premono per farsi acquistare. Una lotta epica tra Kundera e Woolf per spartirsi nei tempi giusti un tizio con il cappello e una signora tatuata. Mentre, dopo l’acquisto, nelle librerie di casa si dispongono in ordine lasciandosi accarezzare. Alcune volte forziamo la mano, lasciamo giù il libro che ci ha chiamati, ne prendiamo un altro titubanti ed ecco che lo piantiamo a metà, o ci sforziamo di leggerlo. “Non ci ascolta, questo qui” tuona Hal Incandenza dal ripiano in alto, dopo essere stato letto un anno fa. “Era il turno di Peter, Judit e Marika”, sussurra un personaggio di Philip Roth.

Non apprezzo la solitudine statica e senza aria, se non quando è tardi. Se non ora che il pomeriggio se n’è andato. E mi dispiace averla persa. Mi dispiace perché domenica scorsa l’ho dovuta addirittura difendere dall’arrivo di un amico, e l’ho sorbita di gusto durante e dopo i miei trenta km. Me la devo conquistare, spesso. Quando invece è totale e forzata – solitudine, libertà, spazio aperto – non so muovermici in mezzo, non so usarla. Procrastino. La trasformo in noia e sonnolenza. Quante possibilità, quanto non ho fatto. Sto. Semplicemente sto.

Una storia di corna e leggerezza

typewriter-111407_1280La prossima volta glielo dico. Sì, ci ho pensato. Quella sua interpretazione proprio non mi va giù e forse gli dico anche che tutta questa autoreferenzialità mi indispone. Ok, ha ragione. Ho smesso di leggere un libro a settimana, narrativa per essere precisi. Ho smesso di concentrarmi, divago, progetto, fantastico. La musica di Spotify mi conduce in quei vicoli di coincidenze inventate pensando che siano quasi già vere. Sono stanca e voglio pensieri miei, parole mie, elaborazioni della mia mente. Voglio qualcosa che si muova. I libri sono statici e impongono immobilità al mio corpo. Ok, avrò anche piantato un libro complicatissimo a pagina 100 e qualcosa. Io non lo faccio, d’abitudine. Mi torturo, ma non abbandono. Non lascio ciò che inizio. Sono sicura? Non lascio ciò che mi piace, forse… Infinite Jest mi piaceva, L’arcobaleno della gravità al momento mi lascia un sottile disgusto. Cammino e la rabbia cresce. No, non è rabbia. Impotenza, sensazione di non essermi spiegata a dovere. Al posto di quel libro ora nella mia borsa c’è un manuale di scrittura. Racconto. Conflitto, voce, intreccio, trama… quella roba lì. Alla quale io tengo. Sprovvista di maestri, di direzioni, di frecce gialle, che altro potrei fare? Agire. Mi sembra il minimo. E lo faccio seguendo un’onda dettata da conoscenze che mi mostrano contatti che mi citano personaggi e libri di scrittura. Non posso sapere, almeno non con certezza, se possiedo o no quel granello di sabbia dal quale hanno ricostruito Fantàsia, sì, quelli là, quelli della Storia Infinita – Sebastian, Atreiu e il Fortuna Drago – ma posso esercitare. Cosa? O il nulla o quel granello. Quindi non significa che io desideri solo giocare, semplificare nel senso meno faticoso del termine. Mettere ordine, sì, certo. Non voglio solo le istruzioni, per alleggerire la mente da tomi difficili. Non è così che la vedo tutta questa storia di corna: ho tradito la narrativa e quel romanzo ostico con un manuale. Non l’ho fatto per avere una storia leggera e senza impegno o perché mi sto arrendendo alle difficoltà dell’introspezione. Mi sto impegnando. Voglio solo sapere come si fa e provarci seguendo quelle regole. Il romanzo è lì, i miei romanzi sono in attesa sulla mensola per quando arriverà il tempo maturo, mentre la mia voce o il mio corpo – quello vero – non possono più aspettare. Sì, glielo dico, forse con un tono duro. Un sasso incrocia la mia scarpa e schizza lontano. Alzo gli occhi prima di sbattere contro un passante, rallento e ripeto ogni parola nella mia testa. Eppure qualcosa mi sfugge… l’attesa, l’impazienza, l’inconsapevolezza.

Impazienti

book-349811_1280

Cosa ti è successo?

Un lieve sospetto,

una domanda innocua.

Lo sconosciuto indovina:

indovina sempre, chi non ti conosce.

Cosa mi è successo?

L’incuria e il tempo, le scelte e le compulsioni.

Quegli esami, quei piccoli fastidi.

Ma poi di nuovo saranno

odori gradevoli, bellezze ritrovate e piccole felicità da respirare

Ma poi di nuovo

saranno farfalle da leggere o libri che ballano.

Ma poi

di nuovo ci saranno improvvisi risvegli notturni,

per l’impazienza di vivere.

Cinquantasette anni per incontrarsi

feet-102454_1280«A raccontarlo, non ci crederebbe nessuno. Due amiche, con così tanti anni di differenza. Cos’ha da spartire una donna di 89 con una di 25?». Qualche anno fa, ne avevo 25, cara N., ma ti guardo e sorrido con gli occhi lucidi. Oggi sei a letto, il viso inizialmente chiuso e triste è diventato solare di chiacchiera in chiacchiera. Abbiamo riso, scherzato. Ti piace darmi consigli e ti piace essere auto ironica. «Magari 25! Io ne ho già 32, non sono più così giovane…». «Cosa? Davvero? Ma noi non lo diciamo a nessuno, non li dimostriamo proprio».

 

Ci siamo trovate. Non ci siamo solo conosciute, sarebbe riduttivo. Così mi hai accolto, con queste parole. Mi hai chiesto se la mia vita è cambiata da quando ti conosco, e mi hai fatto capire di averti portato un po’ di brezza frizzante, quella che ti punzecchia la pelle, ma senza dar fastidio. La tua utilità, la mia sete di saggezza, tutto ciò che abbiamo in comune rendono quell’ora del sabato pomeriggio, un’ora speciale. Vedo in te qualcosa di me, leggo il mio futuro nei tuoi occhi, ascolto la tua storia. Oggi mi hai parlato di tuo marito. Sei rimasta vedova a 46 anni, con un figlio e sola. Non hai voluto risposarti, anche se con orgoglio dici di aver fatto girare la testa a parecchi uomini. Con quegli occhi azzurri e quello sguardo carico di vita, non stento a crederlo. Scrivevi poesie: chissà se – come hai promesso – riuscirò a leggerne almeno una, un giorno. Dalla morte di tuo marito ci hai messo cinque anni per uscire di nuovo nel mondo, per rifarti una vita. Il volto prende vita quando racconti del tuo viaggio a Parigi, di quanto ballavi, dell’università della terza età e della passione – quella vera che non sempre si ha a vent’anni nelle aule studio – per la conoscenza. Le sopracciglia sono disegnate a matita e spesso ti trovo con un pizzico di rossetto e le guance rosate. Non perdi il tuo spirito scolpito e battagliero, la tua voglia di vivere. Per questo – mi dici – sembriamo più giovani, no? Ti vedo stenografare fiera, mentre me ne parli, e ti vedo chiusa in casa in quei cinque lunghi anni, a leggere, nel tuo mondo che io comprendo così bene. Il tuo matrimonio non è stato felice, ma non voglio esporre la tua confidenza e la tua intimità, per non sciuparla. «Più di ciò che ho passato, più di quello che ho sopportato stando con lui, mi fa male chiedermi: ne valeva davvero la pena, vivere così?». Ci guardiamo a lungo, ti prendo per mano come faccio sempre quando non trovo le parole e passiamo a qualche argomento più leggero, ma profondo. E continuiamo a parlare, come possono fare solo due donne che devono percorrere 57 anni per incontrarsi.