Le zavorre e la bambina

amulet-713355_1280Iniziò fin da piccola, da bambina timorosa e trasparente. La sua pelle chiara, gli occhi acquosi. Un pancino prominente sopra un corpo che lasciava presagire tonicità e curve future. Questa creaturina si sentiva indifesa, troppo calma, quasi incapace.

Iniziò fin da quella tenera età a collezionare amuleti.

Sì, perché lei non era la classica peperina-so-tutto-io e nemmeno la vivace arrampicatrice di alberi. Aveva bisogno di sicurezze. O almeno così iniziò a pensare lei, nei suoi giochi. Nessuno, a memoria, riesce a ricordarsi se giocasse con macchinine e bambole o preferisse viaggiare dentro la sua testa, guardando nel vuoto e canticchiando qualcosina per rafforzare le sue fantasie.

Siamo tuttavia certi – e ne abbiamo testimonianza – che iniziò allora, nell’età in cui la delicatezza si accompagna alle prime esperienze, ad attribuire significati nascosti a bracciali e ciondoli, sciarpe, maglioni e chincaglierie.

Iniziò a dirsi, prima di addormentarsi piena di paure, che quel sassolino trovato a terra l’avrebbe aiutata a fare amicizia. Lo strinse forte forte, tanto da farsi male.

«Ti prego, ti prego, sassolino fammi conoscere l’amico Paolino».

E il giorno dopo – zac – Paolino e la bambina divennero amici inseparabili, proprio come lei e il suo prezioso sasso. Che male poteva farle? Ma tanta fu la sua paura attorno a quel semplice amuleto, che quando lo smarrì a nulla valsero tutti i sassi del mondo: si sentì perduta e Paolino non riuscì più a entrare nel suo cuore. Lei scappò perché non si sentì più abbastanza…abbastanza cosa? Nessuno lo scoprì.

I poveri genitori la guardarono con un sospiro: erano piccoli. Piccoli e lontani. Eppure erano anche enormi, quasi a forma di ombrello sotto cui sostare o di gonna a pieghe a cui aggrapparsi con forza. A volte erano anche la sua voce, quando proprio questa non voleva saperne di uscire. 

Da quando perse il sasso e Paolino, la bambina decise di agire in modo più sistematico. Basta basta oggetti liberi di scappare! Avrebbe utilizzato solo ciò che poteva portarsi addosso.

La bambina affidò quindi la capacità di parola a un leggero ciondolo blu che si appese al collo, proprio lì, dove la gola sfocia nel petto e quella fossetta tra le clavicole (ma diciamolo, la bambina di anatomia non ne sapeva nulla) sembra proprio la sala parto di frasi e lunghi racconti.

Poi venne la paura degli adulti e di quell’insegnante un po’ severo. Scelse un bracciale arancione bello grosso,da mettere al polso stretto, per calmare il rumore sordo del battito veloce e agitato. Un giorno fu la strada a spaventarla: quale migliore occasione per mettersi quegli orecchini così luccicanti?  Si sentiva bella, altezzosa e da lì, con le orecchie ben in vista, quasi le sembrò di aver due fanali.

La bambina, intanto, crebbe. Nelle favole si dice “crebbe in sapienza, età e grazia”. Lei lo fece nelle insicurezze e nelle paure. Certo, era intelligente e curiosa e non mancava mai di sorridere. Ma sempre cercava quell’oggetto da portare, per vincere i raccapricci più astrusi e quelli più comuni. Ogni oggetto o ninnolo, qualsiasi cosa fosse un portafortuna, le andava bene. Tranne uno: gli anelli. Per uno strano timore (eccola, un’altra paura) la bambina decise che quelli non erano roba per lei e li evitò.

A quindici anni – tra ragni, uomini, insetti, luoghi, oscurità e futuro – la bambina ebbe braccia fatte di metallo e plastica, colme di ogni braccialetto possibile. Colori sgargianti la ricoprirono. Argentati, bronzei e di rame furono i suoi polsi, tempestate di brillanti le caviglie e il suo collo esile e sottile. Così agghindata, si trascinò pesante da un luogo all’altro.

In realtà più che luoghi si trattava solo di due piccole scatole: dalla sua piccola classe alla sua piccola camera; questo il suo tragitto abituale, nulla di più. Con tutta quella roba addosso, era impossibile andarsene a spasso, ridere o bere qualcosa con gli amici. E poi, in fondo, tutti quegli oggetti pesanti e duri le avevano, per così dire, oppresso il cuore. Non solo la separarono dal mondo esterno, ma impedirono alle sue ossa di farsi lunghe e robuste, ai suoi muscoli di tendersi e contrarsi, alla sua pelle di risplendere morbida.

La bambina rimase bambina sotto quella coltre di oggetti, sebbene gli altri non potessero notarlo, abbagliati com’erano dal luccichio di ciò che lei non era mai stata. Arrivò al punto, di paura in paura, da farsi ricamare un’ampia gonna sulla quale attaccò ninnoli di vario tipo: era una gonna come quelle di una volta, con un cerchio in fondo per tenerla lontana dal corpo. Quando la indossò si sentì ancora più pesante e ferma, le zavorre erano infinite: cornetti rossi, calamite, sonagli, sassolini, qualche fermaglio, addirittura dei santini sgualciti, piccoli soprammobili a forma di elefante, tartaruga, qualche buddha panciuto, e ancora collane, pagine di libri, canzoni, matite e ombretti, diari, coperte, maglioni informi, lenti scure, bambole e sciarpe, un po’ di cioccolato e valanghe di dolciumi, boccette con intrugli disparati.

Finché i ninnoli furono pochi riuscì a vincere – o lo credeva, e noi sappiamo che forse era una bugia bella e buona – le sue paure, le placò per lo meno; poi il peso degli amuleti divenne così grande, ma così grande che per poco non se la fece addosso tanto ci mise ad arrivare in bagno, trascinandosi la gonna e le braccia di metallo e il collo esile pieno di collane e strisciando quei piedi pesanti e quella pancia prominente nascosta da strati di lana. Sospirando, quella fanciulla – prima felice della sua favolosa idea per vincere ogni paura e ora triste e sola – si rese conto di essersi nascosta così bene che nessuno – nemmeno lei stessa  –  sapeva bene che aspetto avesse, nella realtà.

Quando arrivò la sua paura più grande, ossia quella di sbagliare, tanto disse e tanto fece (per non annoiarvi con gli strani giri del pensiero della bambina, che poi ormai abbiamo capito cosa disse e cosa fece) che si bloccò del tutto nella sua piccola cameretta bianca e azzurra. Lei pesantissima, dura, fredda e spigolosa. Ma anche enorme e immensa.

La bambina – ormai non più giovane – aveva però ancora un luogo pulito e limpido: le sue mani senza gioielli. Ecco! Il suo odio per gli anelli! Le sue mani furono le sole a poter invecchiare, ferirsi, tagliarsi, rallegrarsi, stringere, toccare, sentire, afferrare e si sostituirono anche alle labbra per sorridere e alle orecchie per sentire. Divennero i piedi con cui camminare. No, non imparò a stare a testa in giù, scherzi? Con tutto quel peso sarebbe morta! Camminò leggera su un foglio di carta, poi su un diario, poi su una tastiera. Con gli occhi divorò libri e film, catturò immagini, studiò vite e corpi, viaggiò e imparò a parlare un linguaggio nuovo. Sempre più affamata e occupata, un giorno smise di pensare alle sue paure.

Non avvenne tutto di colpo, no.  Semplicemente da qualche tempo se ne stavano buone lì, in armonia. E iniziò a saltare. Piano. No, no… saltando si fece male e capì che l’impazienza andava educata. Mosse un passo, due, tre… inciampò. Restò a terra a lungo, piangendo. Poi si guardò stranita e si tolse i primi ninnoli di dosso, giusto per rialzarsi, quel tanto che bastò per riportasi seduta e poi ancora qualcuno per stare in piedi.

Iniziò a respirare bene, sorridendo. E ogni giorno si spogliò di qualche amuleto, con calma e senza fretta, per poter fare sempre di più… iniziò dai piedi e salì lungo le gambe. L’addome no, quello era presto. La infastidiva vedere l’ombelico poco protetto dalla sofferenza, aperto a venti, intemperie e acquazzoni. Certo, così nemmeno il sole vi arrivò, ma per ora la bambina non faceva grandi distinzioni. Liberò le braccia di gran carriera, e il collo con più timore, lasciando giusto una pietra blu, lì, dove si partoriscono le parole e le frasi suonate (quelle scritte nascono in tutt’altro luogo). Ma ancora, ahimè, non riuscì del tutto a vedersi e a mostrarsi.

Sì, perché la bambina usciva, scriveva, ballava e gioiva, ma il ricordo di quei ninnoli era ancora tutto lì. La sua pelle era piena di piccole ferite invisibili che le dolevano ancora: e non aveva solo ossa e muscoli e sangue, non aveva nemmeno solo organi interni un po’ tutti scombussolati. C’erano anche i fili.

Pochi se ne curano, ma tutti li hanno: paralleli ai vasi sanguigni, ma molto più intricati, delicati e contorti, scorrono i fili dell’equilibrio. Sono fili dorati e quasi trasparenti che vanno al cuore, alla testa, allo stomaco e fino all’ombelico e poi giù lungo le gambe fino alla punta più estrema. Ce ne sono di tenaci e solidi, di labili, di colorati, ci sono quelli solo bianchi e neri, ci sono quelli spezzati e quelli annodati, ricurvi o lineari, quelli che escono e quelli sotto la carne.

La bambina ne aveva rotti tantissimi, addirittura anche qualcuno tra quelli tenaci. Confusi, i fili dell’equilibrio non avevano proprio retto a tutta quella protezione, seguita dalla libertà più pura.Solo Sofferenza e Gioia, lavorando in accordo e con precisione, riuscirono a rompere e rinsaldare qualcosina nel modo migliore. Si salvarono, certo, quelli proprio durissimi e forti, quelli – per capirci – che avvolgono un nocciolo duro e profondo che non si fa toccare da alcuna menata. Danno così tanti nomi a questo nocciolo e tanti scrittori ne hanno parlato, che ormai tutti lo conosciamo, ma solo la bambina lo sentì davvero. Uno famoso, ma famosissimo, lo descrisse così: «dentro di noi c’è una cosa che non ha nome, e quella cosa è ciò che siamo».

Ecco, quei fili, quelli che proteggono il “nocciolo-senza-nome”, si salvarono e solo con quelli la bambina riuscì a uscire dalla sua piccola stanza bianca e azzurra e a esplorare volti, luoghi e sensazioni. Nessuno, ovviamente, la riconobbe, nuova com’era. E nemmeno lei allo specchio  riuscì ad apprezzarsi, ma sempre con la pazienza dei passi (i passi, si sa, di pazienza ne hanno da vendere) si fece conoscere da sé stessa e dagli altri, a volte in modo improvviso e violento.

Finisce qui, la storia della bambina ormai donna? No, la storia non è ancora finita. Perché la bambina ancora ama, scrive, balla, corre, cade, si rialza, si sospende, entra in apnea e rallenta. La bambina è ancora viva e, si sa, finché si vive la storia non finisce.  Possiamo dire che di fili rotti e non riparabili ce ne furono parecchi, alcuni sono riannodati in qualche maniera, altri sono penzoloni, altri ancora si stanno riavvicinando.

Possiamo dire che ora, la bambina paurosa, coraggiosa, sbucciata qui e là, non vive felice e contenta. Vive e basta. Per quella che è e non sa di essere. Possiamo dire che ha fatto quasi amicizia con le paure e ha smesso di riempirsi di amuleti. Solo orecchini per vezzo, e – udite, udite – un solo e unico anello, che per lei rappresenta un po’ ogni filo durissimo che non si spezzò. Ovvero quel nocciolo duro, ciò che lei è stata, è e sarà.

Soprattutto sarà.

 

Rabbia

background-84678_1280Salii su un convoglio senza aria condizionata. Il caldo era insopportabile e malsano, quasi da attacco d’ansia e svenimento. Un’atmosfera solida e soffocante, qualche viaggiatore seduto. Mi chiesi come potessero resistere, lì, sopportando con grazia. Non era solo calore: era mancanza di ossigeno, di respiro. Mi mossi in avanti, camminando decisa, e venni ripagata da alcune carrozze fresche.

L’indomani mi capitò qualcosa di molto simile: non sul treno del ritorno – dopo un’intera giornata di sole e caldo – ma al mattino. C’erano trenta gradi da poco tempo e un pizzico di aria riusciva a fuoriuscire da qualche apertura. Mi accomodai senza pensarci, il sole mi batteva addosso con prepotenza. A Rogoredo mi spostai, per migliorare lievemente la mia condizione.

«Ci pensai tutto il giorno a questo atteggiamento, sai?»

La mia estetista mi ascoltò attenta. Stavo per affrontare un trattamento rilassante, prima delle ferie. Non l’avrei vista per più di un mese e mancava solo un massaggio per lasciare un ricordo positivo del suo passaggio.

In altre circostanze della vita, quando il caldo si rivelò insopportabile, mi diressi subito più avanti, incurante delle altre persone, di chi – chissà perché – stava lì. Non mi posi alcuna domanda e non diedi per scontato che lungo tutto il treno mancasse l’aria. Non mi fermai in laboratorio, in università, perché quel senso di inadeguatezza mi colse subito. Non mi lasciai vincolare dalle altre persone, né dall’idea che quel treno sarebbe stato tutto così, identico a sé stesso.

Mi accomodai inizialmente in un altro contesto simile, ma dal calore sopportabile: un’azienda farmaceutica mi fece crescere e scaldò le mie consapevolezze per due anni . Non mi spostai da sola con la grinta che ora possiedo, ma ciò che doveva scegliermi, mi scelse.

Oggi il tepore è così lieve e guantato che per schiodarmi dal mio sedile mi ci vorrebbe molta più riflessione, coraggio. Forse rabbia? Con chi dovrei arrabbiarmi e per cosa?

Antonia mi guardò perplessa, le mani unte di olio trafissero la mia schiena. «Stai scegliendo?» mi chiese lei, senza esitare.

«Non percepisco scelte, purtroppo – le risposi -. I posti in treno sono quelli, non ne trovo di migliori. Ma sono furiosa e non so perché. Ho una vita bellissima, ma dentro qualcosa rumoreggia, si gonfia, si riempie di acque scure».

Lei tacque a lungo per darmi tregua. I confini erano incerti e confusi. Veniva prima l’insoddisfazione o la rabbia? E le scelte – inesistenti o incapaci a compiersi – erano causa o conseguenza?

«Mi sento come se ogni mio sforzo verso un vagone migliore fosse vanificato, come se ci fosse qualcosa lì, pronto a venire. Un orgasmo che non si compie, una novità che non emerge, che si nasconde, o troppo piccola per generare stupore».

Ho una fame da placare, una costante ricerca. Ma di cosa vorrei nutrirmi? Riempio quello stomaco fittizio con lo sport, esagerando e facendomi male. In passato non sceglievo per paura del non-scelto, per non chiudermi e indirizzarmi. Restavo alla superficie delle cose: facevo, smettevo, abbandonavo, ritornavo, mi tuffavo e risalivo immediatamente.

«Nei miei viaggi – dissi all’estetista, quasi per giustificarmi – non sono bulimica. Li scelgo con cura, uno per ciascun anno. Preparazione, itinerario e ritorno diventano un rito delicato. Li medito, li studio, li plasmo da sola. E con il Brasile ho anche abbandonato quella parte arraffona, insaziabile, che non sa scegliere e vuole ingurgitare tutto il possibile. No, questa volta mi dedico a poche tappe, fatte con cura. Questa volta vince lo stare sull’andare. Il rimanere per assaporare».

«Bene, ma dimmi… concentrati su ciò che non collima. Lascia perdere per un attimo questo bel risultato nei viaggi o il rischio calcolato che hai compiuto sul lavoro poco tempo fa… dimmi invece, cosa non collima con te? Con chi sei arrabbiata e cosa cerchi?»

Ma sì, Antonia, lo sai, vero? Forse sono la mia ambizione e l’incapacità di accettare un treno tiepido, senza vagoni migliori?  Vorrei solo poter sfruttare ogni micro potenzialità che ho a disposizione per dare un senso a me stessa. Non voglio che il mio dato di realtà sia questo scalino lavorativo, non voglio che sia proprio questo dato di realtà a scontrarsi con i miei desideri facendoli capitolare. Va bene avere a che fare con altre impotenze, dal Brasile alla casa, fino addirittura all’amore. Ma non voglio che questa sia la massima ambizione professionale alla quale io possa aspirare. Non mi interessa più l’orizzonte aperto, né le molteplici possibilità del non-scegliere. Ora desidero scegliere, ora voglio e devo vincolarmi alle mie capacità.

Eppure, eppure c’è altro… non sapere cosa mi indispone. Sai quando ti sfugge qualcosa,  e non è nemmeno sulla punta della lingua? È sconosciuto, ma c’è.

Antonia non aspettò le mie risposte confuse: «Riposa, prenditi questo viaggio per fare ciò che sai fare: liberare e riordinare la mente. Saprai scegliere, saprai capire e sciogliere la rabbia»,  disse strofinandomi le tempie e il cuoio capelluto.

Io mi misi a giocare con l’anello, senza pensare, ero solo un po’ più triste, più nervosa. Ultreya, ossia “vai avanti”, è la parola incisa sopra quel cerchio. Ne ho sognato uno identico, ma sporco, rovinato, ammaccato. Quanto dovrò ammaccarmi e sporcarmi prima di riunire i pezzi e andare avanti?

Dialoghi. Il fascino dell’analogico, a otto anni

typewriter-801921_1280«Che cos’è?», domandò con il dito puntato.

«Come?», fece eco sua madre.

Rimase disorientata solo per un impercettibile istante, poi si riprese.

«Si, giusto, hai proprio ragione a chiederlo…».

La donna si chinò per raggiungere l’altezza di sua figlia, accanto a una vecchia macchina da scrivere piazzata lì, in basso, davanti allo scaffale della libreria meno dedicato ai libri, quello vicino alla cassa.

«È una macchina da scrivere. Vedi? Quando schiacci una lettera si alzano questi …mmm, come dei martelletti che picchiano su questo rullo nero. Qui c’era l’inchiostro… no, amore, non toccare troppo. E qui si metteva il foglio. La vedi la lettera impressa sopra al martelletto? Corrisponde a quella che hai schiacciato, giusto?».

La bambina si mostrò perplessa. Schiacciò i tasti con calma, insoddisfatta.

«Si usava per scrivere, amore! Ora c’è il computer. No, amore, l’inchiostro è secco. Vedi? E non abbiamo fogli…».

«Ma, mamma, come si invia?»

Parole vuote

A un certo punto sefont-705667_1280nti urlare nella testa. Ed eccola, l’esigenza di solitudine farsi largo. Non è stare sola in sé, ma eliminare gli eccessivi stimoli, il tuo nome pronunciato fino al vomito da chi ti chiede e vuole, le richieste lecite, le pretese, le giuste obiezioni, i favori e i lavori, gli imprevisti, i contatti da mantenere. Ma anche quel tizio che ti chiede la strada, la telefonata che desideravi, il caldo sul tram e il freddo gelido dell’ufficio. Le chiacchiere vuote.

Sulle chiacchiere vuote potrei dilungarmi. Le chiacchiere vuote dilatano lo spazio, soffocano il tempo. Se avessero una forma e una consistenza sarebbero molto simili a quelle del mercurio nel termometro di un tempo, che quando si spargeva per il pavimento – sempre della cucina, chissà perché – ti divertivi a raccoglierlo con un foglio di carta, senza toccarlo. Lo osservavi mentre si univa, molliccio eppure concreto. Fragile. Sembrava sul punto di liquefarsi, rompersi, fondersi. Lasciarsi andare. Come se “chissà quanto regge in quello stato simile a un budino”. E lui regge.

Le chiacchiere vuote sono tenaci e insostituibili: servono per rompere i silenzi, eliminare il disagio, unire goccioline sparse, riempire buchi, vuoti insopportabili con vuoto mascherato e sonoro. Servono per i contatti, la gente, le isole che non siamo, la folla, quella conoscente, quel collega, il cliente.

Eppure io mi sento un budino quando capisco che arriva il momento delle chiacchiere vuote. Le evito, se posso. Più che altro non le so dire. Balbetto, incespico, sto zitta, annuisco con gli occhi a pesce. Sembro stupida. A volte è timidezza, altre volte è bisogno di stare zitta e sentire silenzio.

In questo ultimo caso il il mio segnale è chiaro, sto zitta, non ti parlo, quindi smettila con blablabla che non me ne frega un cazzo del matrimonio di tua cugina, né della collega stronza o dei denti di tuo figlio. Che poi spengo il cervello e puoi dirmi ciò che vuoi che non ti sento, è più forte di me.

Altre volte è mancanza di contenuto: di cosa parlano, le chiacchiere vuote? Del tempo, del caldo d’estate, del freddo in inverno, della salute, degli acciacchi, dello scorrere di qualcosa, dei defunti a volte, delle ferie, del rientro dalle ferie, dell’ultimo fattaccio di cronaca, la politica è solo quella da bar, quasi sempre ci si infila una lamentela, mai della felicità o della gioia, nemmeno per un motivo più che valido. Non si tocca la tristezza, solo piccoli ululati di scoramento, nei casi peggiori. Ci si augurano belle cose, si danno suggerimenti non richiesti, si concorda quasi sempre su qualcosa. I figli, quelli sono un dovere sociale, parlarne non solo è lecito, ma d’obbligo. Oppure l’anziano genitore. Di un evento? Libri, viaggi e film per carità, non sarebbero vuote!

Le chiacchiere vuote non sono più così vuote quando ci metto del mio. Ho imparato che non so parlare del tempo, non so lamentarmi del caldo, non saprò mai di cosa parlano le chiacchiere vuote, che parole servano, come si costruiscano. Ho trasformato il balbettio e la faccia da pesce spaesato in un pregio, in un vanto. Ho deciso di dire sinceramente agli amici quando non ho voglia di parlare né di vederli, quando ho bisogno dello spazio solitudine. Ho capito chi sono gli amici migliori quando il silenzio non genera imbarazzo, ma pace.

Con i conoscenti mi appiglio alle loro, di chiacchiere vuote e mi sposto di liana in liana, come quando in India ho provato ad appendermi a quella pianta e a dondolare. Intorno c’era la vastità di una terra arida e secca, le crepe sul terreno, il terriccio che s’alzava con il vento. I bambini e un insegnante di poco più di vent’anni vollero farmi provare e assaggiare il loro cuore, l’India: nel silenzio più pieno che abbia mai sentito.

E poi ci sono gli sconosciuti, l’autobus, le code in posta, l’ospedale, i treni, i contatti di lavoro, le amiche di amiche, i parenti di amici. Con loro parlo di ciò di cui so parlare. A volte parlo di me, di ciò che faccio, di ciò che penso. Con loro può essere una sorpresa o una delusione, poco importa. Alcuni capiscono, altri si straniscono: mi sta raccontando cosa ha fatto in ferie? Mi sta dicendo “qualcosa” invece che un “niente”? A volte rispondo a domande, con sincerità; altre volte basta uno sguardo. Ci sono casi di complicità incomprensibile e momenti di silenzio imbarazzante. Ci sono situazioni in cui appaio logorroica, estenuante, un fiume senza spazi.

Riempio il vuoto delle chiacchiere, ma evitando lo spreco, perché le frasi piene sono poche al mondo. Ne abbiamo in dotazione solo un numero esiguo: per questo usiamo quelle vuote per riempire e tendere fili tra persone. Non sono meno belle, sono solo più faticose, almeno per me. Non le sopporto, ma ci convivo. Per evitarle inseguo la solitudine, il silenzio, le amicizie strette e i divertimenti fisici e attivi. Oppure scrivo, a volte anche tutte quelle parole vuote che non so dire.

L’inatteso

CIMG8052Mi ero preparata a un giorno senza ansia. Mi sono svegliata quasi in ferie, con la sensazione di essermi riappropriata di otto ore, non più in vendita. Questo venerdì è mio, mi sono detta. Ho iniziato da ciò che è più importante, seguendo il consiglio di Marina, che ha stravolto la prospettiva classica.

Incanalata nella mentalità che sia il dovere ad avere la precedenza, non mi sono mai posta il problema di cosa sarebbe accaduto invertendo i ruoli. O meglio, cambiando le etichette: “piacere” e “dovere” con “importanza”. L’importanza apre un nuovo cunicolo: importante per sentirmi bene, per guadagnare, per avere la mente serena, per sentirmi appagata, per sorridere, per provare piacere. Da dove inizio?

Inizio a leggere qualche pagina, scrivo un post per il blog, porto avanti un compito di scrittura. Poi passo al lavoro: qualche notizia, riletture, correzioni. Con calma e consapevolezza. E mi accorgo di una cosa. Quando scrivo per lavoro non passo il tempo a pensare di dover e voler finire, fino a che poi finalmente scriverò qualcosa per me stessa. L’ho fatto prima. E l’ho fatto davvero. Altrimenti diventa una rincorsa a qualcosa che non farò mai. O quasi mai. Perché i lavori remunerati avranno sempre la precedenza (come è giusto che sia) e si accumuleranno all’infinito, e ci sarà sempre un nuovo lavoro che mi fa comodo.

Ti fa comodo perché asseconda una tua paura. Quindi procrastini, ritardi, posticipi. Sai che non verrà mai quel momento tutto tuo. Perché dopo i lavori remunerati ci saranno la casa, le commissioni, due passi a piedi, lo sport, gli amici, la telefonata, le chiacchiere con tua madre.

Ciò che ho provato si chiama rilassatezza, ma anche senso di riconquista. Un passo dopo l’altro, ciascuno spontaneo e naturale, senza la sensazione di dire “dai che ho quasi finito, dai, dai che è tardi…”. Mi evito anche una buona dose di palleggi tra lavoro, social e rete, tipici della scarsa concentrazione.

Ma le sorprese, venerdì, non erano ancora finite. Esco per due passi semplici in centro, dopo pranzo. Al ritorno incontro una donna con la conchiglia del Cammino appesa allo zaino. Non è la prima volta che accade, ma questa volta è accanto a me, non sto andando al lavoro di corsa, non è troppo tardi quando vedo il simbolo. La fermo, le mostro il mio braccialetto pieno di frecce gialle e in un attimo si chiacchiera. Con uno sforzo rispolvero l’inglese, dall’ingranaggio lento perché non lo uso mai. Lei parla mischiando italiano, spagnolo e francese. Poi si assesta sull’inglese.

Mi sento a metà strada tra il Cammino e la vita reale, demarcata. Come se uno specchio mi attraversasse lungo il piano sagittale: per metà respiro quell’atmosfera, per metà sono nella città in cui vivo. Mary è partita da Monaco. Ha fatto Innsbruck, Brennero, Verona, Piacenza, Pavia, sopra a una bicicletta in cui c’è più della sua casa. Cerca Cammini non convenzionali e vive in Francia, vicino a Bayonne. La guardo con due occhi che brillano, le racconto delle mie esperienze e si inizia a parlare, proprio come sul Cammino. Si parla davvero. Si è veri. Si parla di sé stessi, di cose semplici, del vero e dell’azione, della riflessione. Niente di pesante o esistenziale. Ma ci si guarda negli occhi. L’accompagno da Gigi, per farsi aggiustare un pezzo della bicicletta e decido di aspettarla, per poi andare insieme a Santa Maria in Betlem dove troverà un alloggio.

Qui prevale il mio lato quotidiano, ossia la consapevolezza di poterla ospitare, ma di non saper gestire quella visita inattesa, nelle mie abitudini. Le offro un cappuccino e le dico il vero – ancora una volta – per fare ammenda del mio comportamento poco pellegrino. Lei è così felice: vuole farmi capire che sì, va bene anche così. Non devi dimostrare nulla, Eleonora.

Mary mi chiede se farò un altro Cammino, quest’estate. Il Brasile sembra così piccino (nonostante il mio sincero entusiasmo) di fronte alla potenza di quell’esperienza, che per un attimo esito, poi spiego, precisando di voler fare la via de La Plata l’anno prossimo. Lei, invece, mi fa sentire su un percorso. Lei, che ha vissuto sei anni in Brasile, mi suggerisce, mi racconta, mi galvanizza.

Sorrido pensando che sia il tipico regalo del Cammino (è la terza persona che incontro e conosco in poco tempo che ha vissuto in Brasile, insieme a Gabriella e a una ragazza del corso di yoga con il fidanzato brasiliano). Là, in quella terra, Mary ha fatto la bibliotecaria per il German Center… (non ricordo bene). Mi racconta di aver iniziato a scrivere un diario dall’età di 12 anni e di non aver più smesso – o quasi – e scrive, scrive sempre. Sono emozionata, penso a Gyongyi, e Pavia si trasforma in una città del Cammino, io sono qui e là allo stesso tempo.

Nessuna chiacchiera vuota – quanto le detesto! Pur apprezzando le risate e i momenti frivoli – nessuna leziosità, finta gentilezza, bellezza artificiosa. Due donne che si incontrano, si mescolano e ripartono. Un contatto su un foglietto è ciò che rimane. E da lì poi…

Solitudini

book-436507_1280La solitudine che cerco non è quella che trovo. Oggi è forzata, costretta, vincolata e limitata da quattro pareti. Non posso fare le mie lunghe camminate, né correre, né accontentarmi di un giretto in centro. E quindi la disprezzo. Non ne approfitto perché si trasforma in inettitudine e pigrizia. La postura, la stanza, la penombra, il computer, l’aria condizionata sono elementi che percepisco come malsani e portatori di noia.

Poi mi costringo a prendere contatti per un’intervista di lavoro, a pianificare il Brasile, anche se mi sembra di girarci intorno e qualcosa non convince. Infine arrivo anche sul blog. Aspetto che la giornata finisca. Lo sento dentro che la mia è un’attesa. Esco per un caffè e una Coca zero, uso whatsapp e cazzeggio in Facebook. Stavolta no, no che non la amo la solitudine, anche se conoscendomi non è che la sacrificherei proprio per qualsiasi persona o attività. La solitudine del movimento mi appartiene e mi fa godere della solitudine da divano/camera/cucina.

Oggi invece sono vagante, annoiata e mi viene appetito. La musica mi innervosisce e non ho nemmeno aperto il libro, nonostante non veda l’ora di procedere con “La donna giusta”, pieno di ciò che provo e vivo, pieno di considerazioni che quando alzo la testa mi convinco che siano i libri a sceglierci.

Un popolo di pagine che sfugge dalle mani sbagliate. Mi immagino Anna Karenina che si scosta, mentre le sorelle Lisbon premono per farsi acquistare. Una lotta epica tra Kundera e Woolf per spartirsi nei tempi giusti un tizio con il cappello e una signora tatuata. Mentre, dopo l’acquisto, nelle librerie di casa si dispongono in ordine lasciandosi accarezzare. Alcune volte forziamo la mano, lasciamo giù il libro che ci ha chiamati, ne prendiamo un altro titubanti ed ecco che lo piantiamo a metà, o ci sforziamo di leggerlo. “Non ci ascolta, questo qui” tuona Hal Incandenza dal ripiano in alto, dopo essere stato letto un anno fa. “Era il turno di Peter, Judit e Marika”, sussurra un personaggio di Philip Roth.

Non apprezzo la solitudine statica e senza aria, se non quando è tardi. Se non ora che il pomeriggio se n’è andato. E mi dispiace averla persa. Mi dispiace perché domenica scorsa l’ho dovuta addirittura difendere dall’arrivo di un amico, e l’ho sorbita di gusto durante e dopo i miei trenta km. Me la devo conquistare, spesso. Quando invece è totale e forzata – solitudine, libertà, spazio aperto – non so muovermici in mezzo, non so usarla. Procrastino. La trasformo in noia e sonnolenza. Quante possibilità, quanto non ho fatto. Sto. Semplicemente sto.

Cara Mariangela

bob-dylan-63158_1280Cara Mariangela,

è da tanto che non ti scrivo e ultimamente ho saltato anche qualche sabato. Tu resti sempre nei miei pensieri e il bene che ti voglio è immenso. Mi hai aiutato tanto da quando mi sono trasferita a Pavia e ti ho conosciuta. Credo di poter dire che sei la mia migliore amica in questa città (insieme a Silvia, te la presenterò). Mi hai capita, ascoltata e hai saputo trasmettermi la tua passione, il tuo amore per la vita, la tua saggezza. Ricordo i momenti in cui entravo in Istituto un po’ triste o ansiosa o piena di dubbi e paure. Bastava stare con te, chiacchierare e ridere per uscire da lì rinata. Ogni cosa diventa più chiara e nitida se ne parlo con te. Hai un potere e una capacità enorme: quella di capire le persone. E noi ci capiamo perché siamo così simili, vero? Abbiamo le stesse passioni e la stessa visione della vita. Non sappiamo accontentarci e siamo testarde nel raggiungere i nostri obiettivi. Mi piace quando mi parli della tua giovinezza, del tuo ballare… ti si illuminano gli occhi stupendi che hai. Anche nei momenti in cui la tua mente si adombra di ricordi tristi, non perdi quella forza e quella vitalità incredibili. I tuoi ricordi di vita mi mostrano un percorso e mi fanno avere fede: fede nella vita, nelle sue bellezze e nei suoi colpi bassi, nei suoi regali e nelle sconfitte. Mi fai aprire gli occhi sul percorso, mi riporti al mio cammino.

Vorrei tanto parlare ore con te, mi è piaciuto avere consigli sugli uomini e  capire insieme a te che quelli poco decisi non vanno bene. A volte mi sento così maschile, forte e indipendente che penso di non riuscire a trovare un uomo che sappia come prendermi. E ho paura della mia fragilità. Della me delicata, leggera e schiva. Sul lavoro, il mio sogno preme forte: vorrei scrivere di narrativa. Il giornalismo è solo una parte di ciò che amo fare, e il mio lavoro attuale comprende anche molti compromessi. Penso di avere esaurito la pazienza e che i compromessi ora siano troppi. A volte mi sento entusiasta e combattiva, come se potessi davvero fare tutto; altre volte mi scontro con la realtà, con la paura e con il fatto che – in fondo – non sono capace di mettermi lì e pensare a un racconto. Scrivo solo pensieri miei, spesso brevi, sulla mia vita. Ma ci sto provando, con ogni mezzo, a sbocciare, a diventare ciò che sono, a rendere grazie al dono favoloso della vita, a non sprecarlo: non nel senso di fare di tutto e provare tutto, ma nel senso di capire ciò che è davvero importante per la nostra realizzazione e per lasciare questo mondo con serenità, quando sarà il momento.

Grazie per tutto ciò che mi insegni, perché sono sempre più ricca, luminosa e bella quando ti vedo. E più felice.

Ti voglio bene

 

*tutte le altre lettere a senso unico sono personali, ma ho voluto condividere questa, per ringraziarla davvero e di cuore.