Bella, come non sono mai stata

brown-209106_1280Cos’è tutto quell’astio, quella blatta sulla cappa in cucina, quella pippa mentale che ti trasforma in una stronza con la tua migliore amica, cosa non tiri fuori? Sì, sono arrabbiata, anzi no, sono un moto tumultuoso e impetuoso di incazzatura, di nervi, di voglia di sbroccare. La percepisco come una rabbia iperattiva, utile, impaziente. Sono talmente felice per banalità, endorfine, progetti e conquiste che quasi di questa rabbia sembro non accorgermi. E invece eccola, ed è la mia estetista a chiedere conto della mia acidità. Lei. Le dico che voglio… essere io, che spinge e preme questo io, questo ego maledetto. Le dico che a volte preme così forte da farmi sentire imprigionata e impaziente. Ho una mezza ossessione per la scrittura che non si sfoga, come un orgasmo bloccato. Non è l’ossessione sterile del giornalismo che avevo anni fa, che quando ho iniziato davvero a scrivere mi ha lasciato quel vuoto tipico di un obbiettivo troppo desiderato, troppo atteso e insignificante nei risultati. No. È come un misto di paura, di pigrizia, di assenza di idee. Come quando non so cosa dire. E fatico e quella fatica mi lascia come se mi tappassero la bocca, mi togliessero l’uso della parola. E la fatica inibente mi innervosisce. Non è la fatica del muscolo, della corsa, della camminata. Non è la fatica buona. Sembra più un processo di rimescolamento di una massa troppo densa, così che quel cucchiaio resta intrappolato e invischiato. Come un elenco, come questo elenco pieno di frasi che iniziano per “E” e di paragoni che iniziano con il “come” e di parole ripetute. Ho anche quella voglia di prendermi la seconda laurea, in psicologia? Sì, probabile.Il libro sull’introversione che sto leggendo mi fa venire voglia di alzarmi in piedi sul treno e declamarlo, da quanto è vero. Ho la voglia di robetta che sappia di cultura umanistica. Ho la repulsione per la scienza nuda e cruda, non per il ragionamento e nemmeno per il metodo. Voglio rinascere, voglio avere una seconda – o anche terza – adolescenza, intesa come costruzione di me, della personalità, delle inclinazioni. Non posso rimpiangere a vita la mia vecchia strada, ma voglio urlare a tutti chi sono, chi scopro di essere, cosa amo, cosa non apprezzo, qual è il mio stile. Sperimento, ma mi conosco, e l’impazienza buona mi danza davanti. Vorrei dirlo ai miei familiari, chi sono. Come se fossi incinta di me stessa. Lei, l’estetista è lì, e dopo tutto questo vomitare, risistemandomi il viso e il corpo, mi chiede cosa non dico, cosa non tiro fuori, se sia qualcosa che riguarda ciò che accade in quello stanzino. O non accade. Riemerge di nuovo il nervoso, l’impotenza, la parlantina che si spezza. Ecco cosa non dico! Perché, non basta? Cosa non va in queste affermazioni pratiche e concrete? Dovrei scendere, scavare ancora, ma non posso o non riesco. Non vado oltre. Non raggiungo la profondità in cui si nascondono le blatte, non arrivo dentro di me così tanto. E non c’è nulla che non vada in quello stanzino, nulla. Anzi, forse proprio questo chiedere mi infastidisce. Mi piace quello stanzino, quella chaise longue colorata. Forse vorrei un aiuto in più: concreto, pratico, profondo. Per rimettermi in forma, bella come non sono mai stata.

Parole egocentriche

color-445324_1280…e poi sono stanca anche io, le faccende, il lavoro, tutti quei km ieri mattina, ho camminato, sì. Da un anno… no, scusa, come dici? Santiago! Sì, l’ho fatto, l’ho fatto. E poi il bambino che piange sul treno – per ben due ore – e quella stronza, sai, ti ricordi? Mi ha fatto una scenata, quella. Dicevi? Ah non sei riuscita a farti la tinta; ma brava per quel colloquio. Sì, lei sta bene, si ricorda tutto, mi chiede sempre di te. E sai che fine ha fatto quel tale? Non so se lo ricordi… a teatro tutto bene, bello spettacolo, ho da sbrigare del lavoro arretrato; ma dimmi di te… no perché mia sorella a Firenze si trova bene…

Vomita parole egocentriche, le comprime e costringe prima di gettarle fuori come piccoli petardi fastidiosi. Logorroica, appiccicosa, folle. Si sveglia con la mente piena e ingombra, si stropiccia occhi umidi di umori disparati: consapevolezza, tristezza, rabbia, energia di sfinimento. Sa una cosa sola. La sua è un’impresa, un vera e propria impresa. Non si accetta e non si accontenta – come chi invece è dotato di narcisismo e autostima in abbondanza – e pensa a quanto sia difficile che qualcosa – o qualcuno, soprattutto qualcuno – la scuota. Sì, è difficile che vi sia un interesse che la porti a pensare che possa valerne la pena.Ed è ancora più difficile che ci sia uno scuotimento reciproco, che le strade si incrocino, che le frecce si dirigano l’una verso l’altra in un moto che non sia parallelo, si spera. Nell’impossibilità di immaginare che tutte queste coincidenze si verifichino, Emma pensa che forse resterà così. Libera. La bella e affascinante libertà la seduce con le sue lusinghe, fino a quando non sorge un dubbio, che dura un battito d’ali: gli anni della sua giovinezza, libera, non saranno uno spreco?

Emma esce dal torpore e dalla porta di casa, inizia quel suo camminare per il semplice gusto di camminare, si svuota la mente da ogni pagliuzza, lapillo, nembo, la riempie di tutto ciò che riesce ad abbracciare con gli occhi: il duomo, le montagne lontane lontane, l’acqua invernale del Ticino e le sue paludi, gli alberi deragliati e quelli solidi che svettano in cielo. Non c’è libertà se non quella di essere. Essere tutti quegli elementi in un turbine indistinto. Non esistono confini e contorni perché lei è il fiume che è l’albero che è la montagna. Può solo cantare e muovere velocemente i piedi, per fermare la mente. E canta potente, allargando le braccia, perché nessuno corre la domenica mattina dopo una notte di pioggia, quando le strade sono piene di fango scivoloso. Lei lo schiva, rallenta, pone attenzione, ma procede. Procede per ripulirsi e andare oltre.

Quanto c’è ancora che può scuoterla, davvero…