In libera armonia

harmonica-748243_1280Volevo scrivere di libertà. Quella che ho sentito forte pulsare sotto la pelle in questi giorni, in cui il lavoro mi incatenava alla sedia. In cui il dolore alla tibia mi impediva di correre bene, come avrei voluto.

Mi sono sentita libera, nonostante i vincoli da ufficio, i procrastinare, il rimuginare. La sentivo come l’acqua che scorre, dentro di me. Ero libera nei miei vestiti estivi, sperimentando lunghezze e colori. Ero libera nelle ore notturne, rubate per scrivere ciò che è diverso e quindi più mio.

Ero libera di cercare la solitudine e amarla, ero libera nel progettare le tratte brasiliane con paura ed errore. Ero libera nel desiderare un uomo. Ero libera di desiderare e ottenere – con un atteggiamento timido e inconsciamente provocante – sguardi carichi di altrui desiderio. Ero libera di sentirmi asociale, sportiva, insicura e determinata. Ero libera di fregarmene, ero libera di far sentire la mia voce e perdere la pazienza. Ero libera di stare e andare.

Ero libera di immaginare e leggere, con il naso che toccava quasi il libro, per esserne ancora più rapita. Libera di dire no, un sì, qualche forse. Libera di commentare e di urlare canzoni. Libera di dire “non lo so”. Libera di sdraiarmi dalla mia estetista e chiacchierare di cose vecchie e nuove, tra un piede e una mano smaltata. Libera di essere permalosa, di accettarmi, di rispecchiarmi in parole altrui. Libera di sentirmi come Murakami, di essere ambiziosa, di visualizzare il successo. Libera di vedere segni e frecce nel lavoro e nell’oroscopo di Rob. Libera di prendere un treno a mezzanotte e venticinque e tornare a piedi per il centro all’una di notte. Libera di cantare con le cuffie mentre cammino, con la gente che sorride o mi piglia per matta.

Libera di avere una gonna cortissima, libera di percepire commenti di altre donne (su cosa non saprei, e nemmeno la loro natura) e ridere perché finalmente me ne frego. Non me ne importa proprio. Libera di sventolare le mie opinioni e di non parlare, di essere fredda, di sentire confidenze. Libera di chiedere aiuto. Libera di volere un bacio e non averlo. Libera di invidiare. Ah, quanta invidia di chi fa. Di chi scrive. Di chi ha un lavoro unico e creativo, artistico. Libera di avere paura, e di superarla o di tenerla stretta. Di andare a letto tardi, di mangiare al giapponese e all’indiano, di far uscire una me che non mi aspetto. Come se mi sentissi parlare da fuori. Libera di aspettare un’amica e di sceglierla. Libera mentre gli altri mi mangiano il tempo, libera mentre quel tempo lo ricreo.

Non è della libertà in realtà che vorrei parlare, ma di quel legame, quell’anello che manca e collega i miei due “io” (a volte in pace a volte in guerra) per farne un’unica persona, in libera armonia.

Tiziano Ferro

11705952_10153567263045209_1466884492_oNon piango più come una volta. Non sfrutto quella valvola di sfogo. Non mi sentivo debole, ma capace di buttare fuori ogni cosa. Certo, significava anche essere inetta nell’affrontare minuzie, sensazioni, rimproveri, insoddisfazioni. Ingombravano la mia mente e uscivano sotto forma di lacrime. E il senso di colpa innescato dalla consapevolezza di avere tutto e non sentirsi a posto acuiva un disagio, un vuoto. Però piangevo. Almeno piangevo.

Ora qualcosa si è rattrappito e cristallizzato all’altezza dello sterno, mi disse una cartomante a una festa di paese. Non una di quelle feste con le zanzare e la pelle appiccicosa, né con le giostre e lo zucchero a velo o le frittelle. Era invece dolciastra e affettuosa, sottile e delicata. La cartomante mi parlò di amore, ovviamente, e di quel sentimento che sta lì e non permette di scegliere, di dare vita a qualcosa. Preferisco rinunciare. Perché? Banale sarebbe dire che non voglio soffrire.
C’è qualcosa di più. Qualcosa che non voglio perdere e qualcosa che non voglio acquistare. Qualcosa che mi fa chiudere per difendermi. Qualcosa che mi fa dire: rinuncio, pur di lasciarmi aperto un orizzonte ampio e solo mio. Mi viene in mente Piazza Unità d’Italia a Trieste. Quell’apertura della terra verso il mare, quel tutto che si distende ed estende. Ed è così che vorrei sentirmi.
Ma paradossalmente ottengo l’esatto opposto. La mia libertà a volte mi rinchiude e mi blocca. La mia libertà non mi fa piangere. Mi ha reso dura, forte, decisa. Tante belle conquiste… e poi?

Stanotte ho assaporato parole forti, che un tempo erano pugni allo stomaco. Mi ci ritrovo tutt’ora, le pronuncio urlando in uno stadio come se fossero fisiche, come se le masticassi o le leccassi. Ma non piango, non mi commuovo. Ripercorro il passato, e spunto nella mente tutte quelle situazioni cantate e che io ho superato. Mi sento arida, fredda. Vuota. Non ho nessuno a cui dedicare desideri nascosti, né da mandare a fanculo o da dimenticare. Non desidero alcun ritorno. Tutto è nello scatolone della mia vita precedente. Non ho più la sensazione di aver perso una parte di me, perché questa si è rigenerata come la coda di una lucertola. Canto e penso a tutte quelle vittorie, e alla mia fuga da qualsiasi sentimento.

Ed eccola lì, la verità. Inutile fingere. Io non sono pronta. Non sono pronta ad abbandonare ciò che sono, la mia roccaforte di sicurezza, determinazione, risate, progetti che riguardano solo me. Una roccaforte di curiosità, passione, disciplina. La voglia di imparare, di migliorarmi su tutto, di diventare. Una me che non vuole o non sa lasciare spazi vuoti.

A capo, riga, spazio bianco.

Per dare ritmo, per respirare.

Solo camminando o correndo la mia mente trova il suo spazio bianco. E l’ho capito soprattutto in queste due settimane senza sforzi, per via di una banalissima tendinite. Non tanto per la fatica del riposo, quanto per una frase emblematica detta da un’amica: “Se non sei iperattiva nel corpo, è iperattiva la mente; e viceversa”.

Non sono pronta perché devo sciogliere ciò che si è cementato dentro, ciò che si muove e borbotta con movimenti circolari. Non riesco ad accettare un sentimento perché sento di aver bisogno di dimostrare qualcosa. Perché non voglio accontentarmi, ma non è solo questo. Voglio dimostrare a chi e cosa? Con i miei viaggi, con le mie azioni forti, con la mia sincerità a volte sboccata cosa voglio dire? Che anche se sono timida non sono una “femminuccia”? Si tratta di una sensazione di confusione tra il maschile e il femminile che sono in me? Una ribellione disordinata e spastica ad alcuni stereotipi di genere nei quali non mi trovo? O perché la mia introversione o timidezza mi fanno apparire stupida? Respiro con fastidio una tendenza alle etichette, per cui non importa più se mi va di fare una cosa, perché tanto ci sarà sempre qualcuno che mi dirà che è di moda e sono conformista in ciò che scelgo. O ci sarà qualcuno che invece mi farà sentire un’aliena per alcune banalità, o perché accetto con fatica di possedere in me alcune caratteristiche femminili.

Uno, due, tre se conto Londra, quattro con il Cammino e cinque il Brasile che ancora deve venire. Cinque. Per sentirmi forte. Perché amo viaggiare. Perché la bellezza si auto alimenta e più lo faccio e più lo voglio fare. Perché da sola scopri particolari, vivi esperienza più forti e ogni elemento non è più vacanza, ma viaggio. La soddisfazione di organizzare, di averlo creato tu. Non è tanto ciò che visiti, ma come ti muovi a fare la differenza. E i momenti di felicità sono impensabili: un giorno di diluvio in Cambogia, un aereo interno viaggiando leggera tra Hanoi e Saigon e la guida che prende vita sotto la tua matita; quegli aneddoti che continuerai a ripetere per non dimenticarli mai. Ma c’è anche quella spinta là sotto. Lo sai che c’è. Dimostrare a te stessa di essere forte. Dimostrarlo agli altri. Al sesso maschile soprattutto. Forse a quel padre che vuoi stupire sempre, che vuoi non deludere, al quale vuoi dire che non c’è solo la tua timidezza, e che quella timidezza non è così una brutta roba. Sa essere bella, la stai accettando, ma non riesci a farlo del tutto fino a che non senti che quel legame con l’uomo per eccellenza si è ricomposto. Fiducia, accettazione, orgoglio. Semplicemente amore nelle nostre incolmabili diversità. Diversità di opinione, religione, politica, pensiero, ma stessi geni quando si tratta di quelle caratteristiche di personalità che fanno sorridere.

E poi ne hai ancora da scavare per scioglierti. Ci sono le blatte da affrontare: gli aspetti oscuri di te, quelli che ti fanno schifo, ma che ci sono. Quella cattiveria che sta lì, quell’egocentrismo che non ti fa vedere l’altro, quell’invidia che va analizzata e sminuzzata. Ho letto un libro sull’introversione: “Quiet” di Susan Cain. Mi ha aperto il mondo del mio narcisismo (mi piaccio e mi amo tantissimo eppure la maggior parte delle volte non mi accetto). E mi ha permesso – tra i mille spunti – di indagare i miei moti di invidia e quindi la mia ambizione, del tutto svincolata dal classico desiderio di diventare quadro in azienda, ma molto più vicino all’idea di fare un lavoro unico, creativo, cerebrale. Ma le schifezze sono ancora più profonde. Mi troveranno, si presenteranno. E le accetterò queste blatte.

Qualche notte fa ho sognato uno sconosciuto nel gesto di presentarsi e subito dopo un uomo che mi soffoca e si lamenta dei miei atteggiamenti ondeggianti, liberi e prepotenti. Ecco. La summa delle mie relazioni: amo il corteggiamento, la lusinga, il riempire alcuni vuoti, la parola piena di contenuto, ma è indispensabile che tutto ciò non ecceda la misura per non vedermi fuggire nella mia amata solitudine. E – forse – sto anche accettando di conoscere ciò che di me è sepolto.

Devi anche fare sì che nessuno si possa sentire in diritto di dirti che devi essere più o meno qualcosa. Non parlo di non accettare critiche costruttive. Sono convinta che serva circondarsi di Maestri.
Parlo invece di quella tendenza che hanno con te alcune persone. Dirti che prendi un gelato troppo calorico (quando hai appena fatto 30 km a piedi), dirti che dovresti parlare in pubblico, guidare l’auto, trovarti un uomo, essere più magra, più femminile, meno spacca coglioni, più socievole, lavorare di più, essere meno chiusa, più – meno – più – meno – più – meno – più – meno e sei sfinita. Perché non vai mai bene. Sei tu la più critica con te stessa e questo rende critici gli altri verso di te. Forse sei tu che – senza saperlo – dai questa autorizzazione? Tu permetti che ti dicano di mangiare di più o di meno, di ballare di più o di meno? Da dove inizia tutto ciò? Da dentro o da fuori? Dove sta la tua debolezza e perché ti ammazzi per colmarla? Quei viaggi per dimostrare che sei forte sono dentro di te. Vuoi urlarlo che sai stare sola, che sei capace di fare “tutto”. E sai bene che non è vero. E sai bene che nessuno ti vorrà meno bene per questo. O ti stimerà e ammirerà di meno.

Alla fine del concerto hai capito che quel nodo, quel grumo sta ancora lì. Ora lo sai. Sai che sei felice fuori e che lo sei dentro, ma solo per tre quarti. “Dopo un lungo inverno accettammo l’amore…”.
Non sono ancora pronta, ma amerò di nuovo, senza vergogna e senza paura. E sarà come quell’abbraccio che mi ha fatto piangere e sciogliere. Quello del fidanzato di un’amica, quello del perdono per uno schiaffo, quello che ha riportato la pace in tempo di lutto. Un abbraccio potente dal quale sono sgorgate lacrime liberatorie. Quel concetto di libertà cambierà, ti cambierà e non sarai mai più schiava di te stessa.

—-

C’è chi ha detto tutto ciò meglio di me:

Scivoli di nuovo
Conti ferito le cose che non sono andate come volevi
temendo sempre e solo di apparire peggiore
di ciò che sai realmente di essere.
Conti precisi per ricordare quanti sguardi hai evitato
e quante le parole che non hai pronunciato
per non rischiare di deludere.
La casa, l’intera giornata,
il viaggio che hai fatto per sentirti più sicuro
più vicino a te stesso,
ma non basta, non basta mai.

Scivoli di nuovo
e ancora come tu fossi una mattina
da vestire e da coprire
per non vergognarti
scivoli di nuovo e ancora
come se non aspettassi altro
che sorprendere le facce
distratte e troppo assenti
per capire i tuoi silenzi
c’è un mondo di intenti
dietro gli occhi trasparenti
che chiudi un po’.

Torni a sentire
gli spigoli di quel coraggio mancato
che rendono in un attimo
il tuo sguardo più basso
e i tuoi pensieri invisibili
torni a contare i giorni
che sapevi non ti sanno aspettare
hai chiuso troppe porte
per poterle riaprire
devi abbracciare
ciò che non hai più
La casa, i vestiti, la festa
ed il tuo sorriso trattenuto e dopo esploso
per volerti meno male,
ma non basta, non basta mai

Scivoli di nuovo
e ancora come tu fossi una mattina
da vestire e da coprire
per non vergognarti
scivoli di nuovo e ancora
come se non aspettassi altro
che sorprendere le facce
distratte e troppo assenti
per capire i tuoi silenzi
c’è un mondo di intenti
dietro gli occhi trasparenti
che chiudi un po’.

E non vuoi nessun errore
però vuoi vivere
perché chi non vive lascia
il segno del più grande errore.

Scivoli di nuovo
e ancora come tu fossi una mattina
da vestire e da coprire
per non vergognarti
scivoli di nuovo e ancora
come se non aspettassi altro
che sorprendere le facce
distratte e troppo assenti
per capire i tuoi silenzi
c’è un mondo di intenti
dietro gli occhi trasparenti
che chiudi un po’.
Che chiudo un po’.
Che chiudi…

E ancora …

L’Olimpiade
Casco e non mi arrendo
Riderai vincendo
E saprai che ciò che hai lo devi a te!

La fine
Io non lo so chi sono e mi spaventa scoprirlo,
Guardo il mio volto allo specchio
ma non saprei disegnarlo
Come ti parlo, parlo da sempre della mia stessa vita,
Non posso rifarlo e raccontarlo è una gran fatica.

Vorrei che fosse oggi, in un attimo già domani
Per reiniziare, per stravolgere tutti i miei piani,
Perchè sarà migliore e io sarò migliore
Come un bel film che lascia tutti senza parole.

Non mi sembra vero e non lo è mai sembrato
Facile, dolce perchè amaro come il passato
Tutto questo mi ha cambiato
E mi son fatto rubare forse gli anni migliori
Dalle mie paranoie e dai mille errori
Sono strano lo ammetto, e conto più di un difetto
Ma qualcuno lassù mi ha guardato e mi ha detto:
‘Io ti salvo stavolta, come l’ultima volta’.

Quante ne vorrei fare ma poi rimango fermo,
Guardo la vita in foto e già è arrivato un altro inverno,
Non cambio mai su questo mai, distruggo tutto sempre,
Se vi ho deluso chieder scusa non servirà a niente.

Il sole esiste per tutti
E trasceso il concetto di un errore
Ciò che universalmente tutti quanti a questo mondo
Chiamiamo amore

Blunotte  – Carmen Consoli
Forse non riuscirò
a darti il meglio
più volte hai trovato i miei sforzi inutili
forse non riuscirò
a darti il meglio
più volte hai trovato i miei gesti ridicoli
come se non bastasse
l’aver rinunciato a me stessa
come se non bastasse tutta la forza
del mio amore
e non ho fatto altro
che sentirmi sbagliata
ed ho cambiato tutto di me
perché non ero abbastanza
ed ho capito soltanto adesso
che avevi paura
forse non riuscirò
a darti il meglio
ma ho fatto i miei conti e ho scoperto
che non possiedo di più

Dov’è il vero?

298060_10150318717905209_6063289_nÈ morto il proprietario di un piccolo supermercato di provincia, una catena. Ha cambiato nome così tante volte che nemmeno li ricordo tutti. Era piccolo, ma ben fornito e tenuto benissimo. Ci potevi trovare tutto, e credo che abbia servito generazioni di abitanti di paese, prima dell’arrivo dei centri commerciali e degli Iper. Mi secca quando senti: è venuto a mancare, è scomparso ecc… Perché? La morte non si può dire? È morto ed è la sola parola che si possa utilizzare. Non posso dire di averlo conosciuto, ma se ne parlo è perché qualcosa mi ha colpito. Per la prima volta un lutto di paese mi tocca, me ne dispiaccio con sincerità. Escludendo persone conosciute, intendo, non sono di certo così fredda. Leggo la notizia al volo su un whatsapp di mia madre, esclamo “oh no” in modo spontaneo e mi fermo ripensando all’India. Non era giovane, ma nemmeno vecchio. Non saprei dire l’età, so che aveva qualche problema di salute. Conosco nome e cognome, la moglie con cui ha diviso la sua vita. Non aveva figli, ma una nipote morta di tumore. Non lo conoscevo ed era quasi il mio vicino di casa. L’interazione con lui passò attraverso l’India ed è ciò che di lui rende i contorni più netti. Nel 2011 la mia decisione di fare un’esperienza di volontariato lontana si scontrò e incontrò con quel vicino di casa. Sempre un messaggino di mia madre, se non ricordo male, per dirmi che lui aveva fondato una scuola in India in memoria della nipote. Quando gli ingranaggi si mettono in moto, penso che sia difficile fermarli e arrestarli. Una sorta di domino che arriva alla fine. Non voglio fare la fatalista, perché credo nell’azione e nelle scelte, ma ho sperimentato la forza di ciò che “deve” succedere, qualcosa che ha tutta l’aria di essere pronto e maturo per te. Tu hai agito, hai scelto e quella scelta ti sta addosso come un vestito su misura, come se te lo avessero dipinto addosso. Ecco, quello non fu l’India. C’era scritto “sono acerba, non forzare la mano” in ogni passo: non avevo soldi, non ero abbastanza in orario, ho persino trovato l’Asl piena per le vaccinazioni, ho avuto problemi con passaporto e visti, e persino qualche inconveniente con l’agenzia di viaggi che ha prenotato il mio volo, ho dimenticato a casa la tachipirina e ho avuto la febbre. Ricordo ancora quando per un attimo pensai di dover viaggiare con Aeroflot. Prima, però, parlai con quell’uomo, il fondatore, che mi trasmise – vado a memoria e qualcosa posso essermelo ricostruito dopo, di fantasia – la bellezza, la magia, la necessità, la verità racchiuse nelle terre indiane. Conobbi Giovanna, grazie a lui, così da potermi confrontare con un’altra volontaria. La convinzione montava e saliva, nonostante tutti i problemi, e rimasi testarda fino in fondo. In India ci andai. Fu acerba? Sì, un po’ sì, ma era ciò di cui avevo bisogno. Fu come quella nuotata in acque profonde quando tentenni e hai paura. Non credo di poterla chiamare davvero esperienza di volontariato, ma in quel nulla indiano – in quel villaggio di quattro anime dove si inauguravano con feste i bagni dentro casa o la costruzione di una doccia – posso mettere un paletto che divide “prima” e “dopo”. Quasi quanto lo fu l’Erasmus, per motivi diversi, a 21 anni, anche l’India fu un confine narrativo nella mia vita. Sì, l’India – quella che io ho vissuto – è vera, necessaria, magica.

Lo stupore per quella morte è stato incalzato dall’amaro delle relazioni. Non ci si conosce. Per nulla. Ciò che mi ha proprio spinto a scrivere più di quanto già volessi fare è stato un altro whatsapp, una nota vocale, dove nemmeno puoi fermare eventuali incomprensioni prima del degenero. Una malinconica disamina della vita di quell’uomo, immaginato chiuso dentro il suo supermercato, senza uscire, senza ferie, senza godere e vedere il mondo: questo mi ha recitato come una litania la mia amica. E avrebbe avuto anche ragione a esprimersi così, con rammarico e tristezza profonda, se tutto ciò fosse stato vero. E invece quest’uomo sconosciuto andava in India non appena poteva e trascorreva i mesi in quel villaggio. E credo l’abbia anche visitata, a modo suo, quella terra. Sì, certo, non so quante altre ferie si sia mai fatto né che vita possa aver avuto: alternava le casse, le corsie, i pelati e i surgelati nonché 8000 abitanti che non sapevano chi fosse, con i colori, le spezie, i pentoloni all’aperto, la doccia con il secchio, la polvere, la terra, gli odori non programmati e tanti bambini e famiglie che lo conoscevano benissimo, anzi, gli erano grati. M’immagino, senza averlo mai visto, gli inviti e le cene da quelle famiglie. I sorrisi. “In India mi passa qualsiasi acciacco”, ricordo che lo disse e ricordo di aver pensato: quanto è vitale quest’uomo che all’apparenza sembra un fantasma. Ditemi voi, ora, dov’è il vero? Lui è morto e secondo me ha scelto l’India.

Il gioco del “mi piace”

2423518111_7d58d9d412_oQuello che rende poetico Amelie, quello che ha reso uno spazio di Facebook più umano. Il gioco del mi piace, del bello, del momento che ti lascia quella sensazione di bianco. Non è la felicità estrema, non è la gioia istintiva né sconfinata. Si tratta del piccolo e del semplice, a volte anche del maestoso, ma sempre soffice, delicato, mai urlato. Non è il giorno della laurea o il parto, ma è il sapore della sigaretta prima della discussione della tesi o il gesto rapido e scombinato di un futuro padre mentre apre la portiera dell’auto alla sua compagna. Sì, è un elenco, ma un elenco liberatorio, che al mattino riempie la scatolina dell’entusiasmo e alla sera ti scioglie in un sorriso. È guardare un film della tua infanzia e scoprire quanto sia ancora bello e originale, anche se non te lo ricordavi così bene. È capire che – in fondo – è la bellezza a restare, la sensazione. Mi piace chi nota le mie scarpe rosa, o chi comprende il mio colore preferito. Il mio riccio quando è più ribelle, più all’aria, più riccio. È sapere che una cosa sarà l’ultima, è pregustare l’adrenalina di un concerto. È quando qualcuno è gentile in metro o sulla banchina in attesa del treno, è il complimento inaspettato. Mi piace il latte quando è bollente tanto da lasciare segni sulle labbra, come di scottature microscopiche, e quando ha la schiuma come al bar. Mi piace aspettare l’oroscopo di Rob, il giovedì a mezzogiorno, rendere un favore e sentire una voce al telefono. Mi piace quel momento in cui si scoprono intese con un’amica che non vedevi da secoli, quando assapori il tuo piatto preferito. Mi piace il tappeto di polline nonostante gli starnuti, il tipo carino che si siede accanto a me in treno, la sonnolenza ritrovata. È quel saper aspettare, quel non trovare le chiavi, è guardarsi da fuori durante la lezione di ballo e sentirsi felici, anche se non ti viene. È quel momento in cui ti senti sola, ma passa subito, perché sai che è di una bellezza struggente. È il gelato al pistacchio. È sedersi al cinema in fondo e osservare gli altri, è andare da Mariangela e vedere più vita in quella novantenne che in tanti coetanei, è darle un bacio sulle guance morbide e lisce. È sentirsi dire no, quando ne hai bisogno. Mi piace scoprire luoghi nuovi, che tutti conoscono, mi piace la lentezza, ma anche quando ho mille cose da fare incastrate alla perfezione e sentirlo, l’incastro. Mi piace quando parte la mia canzone preferita in un momento inaspettato. È vedere una casa e sapere che è no, è sentire la sveglia e sorridere perché ci si vuole svegliare. Mi piace quando arriva il bus proprio nel momento in cui arrivo anche io. È quel profumo che mi fa scattare, è quando sale l’amore per la città in cui vivo, così, dal niente. Solo da un tragitto a piedi per il centro. Adoro i mercati, con quel colore e gli odori che si mischiano, schivare la gente, andare di corsa e in senso opposto alla folla. È mettersi qualcosa di carino, è vedersi riflessa in un vetro e finalmente piacersi, un pochino.

Qualche mese fa:

Il profumo su un collo sconosciuto, quando il contatto fisico di un ballo arriva prima del suo nome. Quando qualcuno ti fa sentire bella e ti guarda con quegli occhi precisi. Mentre tu ti senti un cesso. I miei tatuaggi nuovi nuovi, il pensiero di quelli futuri, la mia pelle significata, ricca e scritta. La tensione dei muscoli quando cammino tanto – e intendo tanto davvero – il ricordo dei miei 900 km in 28 giorni, la voglia di rifarli e di non scordarli con il tempo che passa. Lo yoga che mi riporta alla vita e la fatica di questa disciplina sconosciuta a chi non la pratica. L’influenza che mi ha costretta a letto per una settimana: l’ho odiata, ah se l’ho odiata, ma ora godo di più di ogni singolo momento attivo e iperattivo. Ed è stato come purificarsi per la primavera. I cappotti rossi, il rumore frusciante sul treno, la canzone che capita al momento giusto e rende bello un lunedì mattina a Milano. I mantra, le amicizie straniere, gli odori indiani, i viaggi ancora da programmare. Scoprirsi, indossare un orecchino, scrivere di getto, riordinare la stanza. La mia amica di 89 anni, la mia sintonia con lei, le lunghe chiacchiere, la psicologia spiccia, l’affetto senza vincoli e contropartite. Dormire due ore, dormire nove ore. Attendere ed essere impazienti.

Linee parallele

Si scostò da lui e scese da quel treno, di sicuro non l’avrebbe mai più rivista. A meno che – iniziò a fantasticare Marco – non fosse solita prendere quello delle 19.45 per Genova, “sì, sempre dal binario quattro. Ma strano, l’avrei notata anche prima”. Il folto gruppo dei pendolari forse avrebbe potuto nascondere quel viso. Marco da un anno e qualche mese non mancava un appuntamento con quel convoglio, forse un paio di volte per un raffreddore, e ad agosto per le ferie. Ma in quell’anno la terapia era regolare e costante. La visita iniziava alle 18.30 e finiva giusto in tempo per rientrare con i lavoratori instancabili. Arrivava al suo binario stravolto, confuso, a volte rabbioso o di una felicità pura. Il suo terapeuta, una donna, aveva un ruolo fondamentale nel determinare il suo stato d’animo al binario quattro di ogni mercoledì. Quella sera la calma e la lentezza lo avevano accompagnato per ogni singolo movimento delle gambe, delle palpebre, delle mani. Si accomodò sulla fredda panchina di metallo, in attesa, in anticipo per il treno successivo, in ritardo per i vagoni appena partiti. Lo zaino stava tra le gambe, la giacca verde scuro lo copriva fino al naso e i piedi erano comodamente stipati in scarponi pesanti, quasi da trekking. Chissà perché, poi, aveva optato per quelle scarpe per recarsi a Milano. Macinava pensieri quando si avvicinò una donna che aveva tutta l’aria di essere appena stata in un luogo teso, stressante, cupo e insidioso. Un ufficio, forse, ma non un bell’ufficio. Sembrava più l’espressione di chi è appena stato in ospedale, in un obitorio, o di chi lavora con un aguzzino. I capelli arruffati e trascurati, con il colore stinto, la rendevano ancora più aliena dal mondo delle belle donne in tacco e tailleur in attesa, come loro, del treno. Eppure se ne invaghì quasi immediatamente. Non fu un’emozione forte o violenta, quanto una lieve carezza: provò un’inarrivabile dolcezza nell’osservare quei lineamenti morbidi, quel sorriso appena accennato e anche le sue occhiaie così pronunciate suscitarono in lui la voglia di abbracciarla. Senza alcun sospetto, la donna si andò a sedere accanto a lui. Frugò rapidamente nell’enorme borsa e dopo qualche secondo lui la vide mentre osservava il cellulare, facendo scorrere veloci immagini e parole. L’uomo dietro di lei si alzò per andarsene poco più in là, forse con l’intento di sgranchirsi le gambe o di scaldarsi camminando un po’. Quell’uomo portò con sé anche la sua sigaretta, il suo odore di tabacco e fumo, e quella nube densa e impalpabile che circonda i fumatori. «Meno male che se n’è andato. Faceva una puzza …». Marco non si aspettava di sentire la sua voce. Quella donna aveva parlato, rivolgendosi a lui. Rimase sorpreso, senza il tempo necessario per registrare il messaggio, comprenderlo e rispondere a tono. “Quale puzza?” Si stava chiedendo Marco tra sé e sé. «Puzza di sigaretta, mi dà proprio fastidio», come se avesse indovinato il suo pensiero. Respirò, e mentre entrambi tirarono fuori ciascuno il proprio libro da zaino e borsa, le disse solo di non aver sentito alcun odore, ma lui aveva smesso, qualche anno fa. Nessun fastidio. Avrebbe forse voluto dire altro, di più, ma cosa? La guardò a lungo, mentre leggeva Alice Munro, chiuse la copertina del suo romanzo di Ken Follett, pensando a quanto i gusti della giovane fossero più delicati: ricordavano lo sbattere d’ali di una farfalla. Quella donna faceva pensare al movimento soffice di un uccello piccolo e lieve in volo, mentre lentamente e con quel rumore di aria sferzata, sbatte le ali. Sì, quella donna era il suono di un fendente. Di una racchetta da tennis o di un bastone di arti marziali. Il suo stupore era accentuato dall’argomento – il solo – al quale si era fatto accenno nelle poche parole scambiate su quel binario. La terapia appena conclusa aveva toccato il tema del fumo per circa quaranta minuti. Aveva solo sognato di ricominciare, ma fugando ogni intenzione al risveglio, nulla di paragonabile a Zeno e alla sua coscienza, ma con due date precise in testa: 4 aprile e 14 luglio. Inizio e fine. Quindici e ventisette anni. Si era distratto con questi pensieri, quando il trenò annuncio il suo arrivo con il solito sferragliare, fischiare e stridere, in questo preciso ordine. La donna se ne andò, lui la raggiunse, lei si sedette, lui rimase in piedi fino a quando lei scese alla prima stazione lasciando a lui quel posto vuoto. Si erano rincorsi come onde, sfiorandosi solo in una frazione di secondo. “Avrei potuto dirle arrivederci”, pensò Marco. Ormai era tardi. Un’onda era arrivata alla spiaggia, l’altra era ancora lontana, persa nei suoi pensieri di fumo e lettini freudiani. Pensò allora che la bellezza di quel momento avesse senso proprio nel mistero, nella coincidenza di una sigaretta e in un battito d’ali scomposto di una donna stanca.

La pazienza

In un giorno di maggio …

brown-robber-fly-425057_1280«Sono arrabbiata. No, sono bloccata. Vorrei scrivere, ma non riesco. Vorrei urlare, ma non posso. Vorrei fare e fare, ma sono lenta. Vorrei stare in un qualche equilibrio, ma tocco gli estremi, sempre. Vorrei agire bene e invece sbaglio. Quella almeno è una costante: o felicità da far quasi male agli arti e agli organi o colpevole da sentirmi male.

Il mio equilibrio sono gli estremi e dentro di loro mi sento bloccata, lanciata come una pallina da ping-pong senza riposo. Felice, attribuendo nuovo stupore alla bellezza della mia vita, della mia routine, delle mie scelte. La gioia per quell’ora di yoga, dormire poco ed essere iperattiva, accarezzare la copertina e immergersi nella lettura, acquistare ciò che mi fa sentire bene, bella e vitale, ballare – oh – ballare: muovere il corpo a ritmo, imparare qualche nuovo passo, sentire un contatto e rinascere, ancora e ancora.
Quante volte cadrò ancora e quante rinascite mi aspettano? La senti prima dentro, capisci cosa prova la terra bucata da una radice che con forza preme per emergere, capisci cosa sente il germoglio nello sforzo di sbocciare. Poi piano, con una gestazione lenta e dai tempi complessi, la vedi apparire, l’apparenza segue la tua nuova te e diventi bella come non sei mai stata. Ti ami. Eppure senti a ogni passo che qualcosa ancora è lì, che aspetta di essere sbloccato: un petalo ancora incrinato, un bocciolo in ritardo. Io aspetto che l’insofferenza che accompagna la mia felicità trabocchi e sbrocchi, tracimi. Aspetto di sentirmi incontenibile, sbrodolare, riversare. Aspetto – esercitando una pazienza che non ho – di non avere più confini».

Eri più bella

CIMG7651Eri più bella prima. Quando camminavi sporca di sudore e mentre lavavi a mano vedevi scendere la terra rossastra dai tuoi vestiti. Eri più bella quando la mattina al buio pesto facevi poco rumore per prepararti, senza pensare troppo alle azioni da compiere subito dopo. Eri più bella quando ogni gesto era preciso perché sapevi come preparare lo zaino e come vestirti davanti a tutti. Quando camminavi gelata sul ciglio di una strada, alle 5.30 del mattino, la luce prima dell’alba ti rendeva più bella, proprio come quel sorriso di cui sapevi vestirti a ogni sosta e a ogni passo. Eri più bella quando i capelli li lavavi con quel sapone e li lasciavi ispidi e chiari all’aria polverosa, incurante. Ti sentivi più bella quando quei muscoli si tendevano per lo sforzo, ma senza chiudersi in palestra. Percepivi la tua bellezza quando qualche “magia” del cammino si mostrava a te con naturalezza. Eri più bella davanti a quegli occhi azzurri sconosciuti, ma impacciata e timida come lo sei ora. Eri più bella quando sei tornata e ancora sentivi dentro quella strada. Eri più bella quando pensavi che nulla avrebbe potuto riportarti a com’eri, perché come sei ora è davvero più bello da vivere e vedere. Eri più bella quando sapevi la risposta, perché sul cammino erano tutte lì per te. Senza quasi chiederle. Sei più bella quando ripeschi dagli strati della merda quotidiana quello che hai vissuto, per quel piccolo mese. Sarai più bella, un giorno, non ora.