stavo guardando il film sulla vita di Johnny Cash.
Quando lui apre tutte quelle lettere di ammiratori che lo ringraziano, in modo istintivo ho pensato: avrei potuto scrivere anche io, così, a Luciano.
Già, avevo undici anni nel 1993, avevo da poco avuto un fratellino, o forse era ancora il 1992 e mia madre aveva un bel pancione dolcissimo. Ricordo poche cose in modo nitido: Eros Ramazzotti che mi dice che ho un bel naso, io che mi addormento al suo concerto, l’euforia del fratellino (dopo una sorella) e la cassettina della madre di una mia compagna di classe.
A memoria sembrava Lambrusco, coltelli, rose e pop corn. È stampata dentro la mente, ma poi mi vedo con questa amica mentre si balla – o meglio si salta – sul suo letto a ritmo di Balliamo sul mondo. Qualcosa non torna, ma chissà cosa. Da lì credo sia iniziata una piccola e sottile passione. Inizialmente fu una carica, una scossa: saltare sul letto, un ritmo incalzante, l’energia di una undicenne. Ma ancora, forse, era presto perché si trasformasse e desse qualche frutto.
Laura Pausini vinse Sanremo – che all’epoca era ancora un evento, almeno in casa mia – proprio quell’anno con La solitudine. Ricordo che alle elementari ritagliavamo da TV Sorrisi e Canzoni i testi delle canzoni preferite, per impararle. A volte capitava che qualcuno potesse fare le fotocopie al lavoro da papà per distribuirle a tutte. Mi ricordo che Laura entrò nel cuore di noi bambine romantiche, prima che io rifiutassi gli stereotipi e diventassi “femminista”.
Poi ci fu il fenomeno 883: chi è nato nei miei anni (intorno all’82) non ha potuto far altro che crescere e vivere con loro un pezzo di adolescenza. Una tappa obbligata, un fluire pigro. Il weekend che finisce a pasta in brodo e affettato, questa casa non è un albergo, Come mai, Nessun rimpianto: quest’ultima canzone la si tirava fuori a ogni storia finita, anche diventati grandi. Mi ricordo mio padre e il suo disappunto per le parolacce, nelle canzoni di quella cassetta colorata regalatami da mia zia per Natale. Conservai con ancora più insolenza Nord Sud Ovest Est, le sue XXX nei testi, ma l’audio ben chiaro.
Sempre alle medie a un certo punto comparve il libretto dei canti dell’oratorio (giuro! Proprio all’oratorio e io ora sono tutto fuorché cattolica, anche se ho la mia dose di spiritualità) era ricco di Liberi liberi e Non è tempo per noi. Ecco, quanto mi ci ritrovavo in quella canzone! Ero una pulce dispersa nel mio mondo di paese, fatto di poche certezze e con la confusione lasciata sulla porta ad attendere il periodo della ribellione, che nel mio caso forse fu tardivo, o meglio, fu graduale. A 33 anni questo periodo sembra ancora non essersi concluso, visto che ho da poco fatto uscire alcune parti del “chi sono”. O chi vorrei essere.
Il Liceo Classico non mi permise grandi distrazioni: testa china fino a sabato quando qualcosa si apriva, qualche libertà. Dapprima il solito oratorio, poi i disco pub e l’Alcatraz e quel ragazzo “grande” che mi piaceva. Due occhi intenti a guardare donne più belle, adulte. Non me. A lui, come se non bastasse, piacevi tu. Di sicuro Urlando contro il cielo era d’obbligo. Poi c’è stata Ho messo via, e con quella scivolarono lontano Laura, Nek, gli 883.
A un certo punto sono comparse Carmen ed Elisa, non ricordo quando, forse più in là. Ma tu eri più forte. Eri tenace ed eri un aiuto. Un aiuto per qualsiasi mio pensiero adolescenziale, per qualsiasi voglia di sognare. A volte eri le parole che avrei voluto sentire da mio padre, a volte eri l’insegnante che non è mediocre, a volte eri solo spinta, energia e carica. Eri sessualità e sensualità. La prima volta che vidi il video di Certe Notti rimasi senza fiato. Avevo 13 anni. E in casa tutti impararono il significato del termine “adolescenza femminile”, mentre io imparai quello di “ormoni”.
Quella che non sei è stata per tanto tempo il mio talismano. In un paesino dove davvero o sei troia o sei sposa, dove la paura di non essere bella mi accompagnò per anni e ancora adesso la vivo spesso, Quella che non sei mi sta addosso quanto un vestito su misura. Anche se ora posso dire ciò che sono. Per fortuna.
Il mio sogno? Ho sempre voluto scrivere, dalle elementari credo. In parte si è realizzato, in parte sto ancora scrivendo. Questa lettera è abbastanza di getto, non guardarla in quell’ottica. Quello che voglio dirti è che nelle tue canzoni ho sempre trovato quel “quid” di speranza, quell’illusione buona, la sensazione che noi che ti seguiamo abbiamo alcune caratteristiche in comune, una mentalità simile.
Il ’99 è stato l’anno in cui finalmente ho strappato a mia madre il primo concerto. Forum di Assago, con amici più grandi. Il giorno dopo avevo il compito di storia dell’arte, avevo 17 anni, ho preso 8. Quella notte ho scoperto l’adrenalina e le endorfine. Non sono più riuscita a fermarmi. Ho saltato il primo Campovolo, perché era il compleanno di un tizio (ovviamente avevo un debole per lui, maledetta me), e Nome e Cognome non ricordo per quale motivo. Ho divorato album vecchi fino a consumarli, alcune canzoni che nel frattempo magari mi ero persa per strada: Walter il mago, I duri hanno due cuore, Dove fermano i treni… le ho scoperte più in là con l’età. Forse non le avrei comprese prima.
Ricordo un concerto a San Siro, mia madre che conserva il mio messaggio: “sono davanti, mamma, sono davanti”. Il mio fidanzato dell’epoca che corre per prendere i posti e il diluvio che comunque non mi fa staccare le mani dalle transenne. Il mio esame di informatica, una settimana dopo, andò benissimo. Ricordo tutti i concerti, da quello nel palazzetto di Cantù fino all’Arena di Verona da sola, in una posizione splendida senza nemmeno saperlo, in un weekend di me stessa altrettanto bello e adulto. Ricordo di aver dormito in auto a Campovolo 2011, dopo averci messo 3 ore per trovarla: eravamo arrivate così presto che il parcheggio era deserto. All’uscita la quantità infinita di automobili conferì un aspetto diverso al prato, tanto da non riuscire a orientarsi.
Ricordo le risate e le attese. Ah, l’adrenalina dell’attesa. La gioia e la bellezza di quei momenti. Perché avevano un senso. Erano la mia speranza. Il mio sogno, la mia passione. Ho capito che per ciò che ti appassiona si può davvero fare di tutto: farsi 400 km fino a Cividale, ustionarsi al sole, uscirne a pezzi, distrutti o fradici di pioggia. Ma felici. La mia determinazione in altri campi della vita, a volte, penso di doverla a quella musica, a te, al tuo atteggiamento. La passione agisce sulla mente ed è la mente che tutto può, o almeno può un sacco: può farti fare 900 km a piedi e nei momenti di fatica farti cantare a squarciagola: gambe per andare …
Tu rappresenti una zona paterna, una zona sensuale, una zona che mi ricorda il mio scrivere, e infine una zona di amici persi, ex, e amici ancora presenti. Tante tappe della mia vita scandite dalla tua musica e dai tuoi concerti. Non ultime, tra le tappe, ci sono anche le lotte interne della mia mente e quella consapevolezza, quella canzone: non sei più lo stesso.
No, sono migliore ora, sono più me stessa di quanto non fossi prima. Ciò che rimane di noi, a volte, è quel nocciolo duro che non si rompe mai e che è l’essenza di ciò che siamo. Ero pronta anche per il 18 marzo, ma l’influenza non ha voluto sentire ragioni e questa volta – a malincuore, ma con il cuore di un’adulta – devo saltare il tour. Sono pronta a guardarti con occhi diversi, ad ascoltare canzoni vecchie con orecchie nuove, sto cambiando, mi sto sbozzolando e ti tengo lì, nel limbo, lasciandoti andare come posso.
I miei tatuaggi sono tre: una frase di un film stupendo del 1993 (Il tempo non muore mai, il cerchio non è rotondo), una conchiglia del Cammino di Santiago con la scritta Buen Camino e un tatuaggio con libri che si trasformano in farfalle o da cui nascono farfalle. Sui libri ci sono un elefante (Saramago), un mappamondo e le lettere della parola Ultreya (vai avanti). I significati sono profondi e quasi solo miei.
Voglio essere me stessa, avere la mia voce, voglio che quella passione mi bruci fino a farmi stare sveglia le notti (per scrivere). In quanto a te, ti lascio andare per conservarti solo nei ricordi. Ormai ho perso per strada la mia vecchia pelle, come un serpente.
Il cerchio non è rotondo, era ora che ti scrivessi.
Grazie,
Eleonora