Tiziano Ferro

11705952_10153567263045209_1466884492_oNon piango più come una volta. Non sfrutto quella valvola di sfogo. Non mi sentivo debole, ma capace di buttare fuori ogni cosa. Certo, significava anche essere inetta nell’affrontare minuzie, sensazioni, rimproveri, insoddisfazioni. Ingombravano la mia mente e uscivano sotto forma di lacrime. E il senso di colpa innescato dalla consapevolezza di avere tutto e non sentirsi a posto acuiva un disagio, un vuoto. Però piangevo. Almeno piangevo.

Ora qualcosa si è rattrappito e cristallizzato all’altezza dello sterno, mi disse una cartomante a una festa di paese. Non una di quelle feste con le zanzare e la pelle appiccicosa, né con le giostre e lo zucchero a velo o le frittelle. Era invece dolciastra e affettuosa, sottile e delicata. La cartomante mi parlò di amore, ovviamente, e di quel sentimento che sta lì e non permette di scegliere, di dare vita a qualcosa. Preferisco rinunciare. Perché? Banale sarebbe dire che non voglio soffrire.
C’è qualcosa di più. Qualcosa che non voglio perdere e qualcosa che non voglio acquistare. Qualcosa che mi fa chiudere per difendermi. Qualcosa che mi fa dire: rinuncio, pur di lasciarmi aperto un orizzonte ampio e solo mio. Mi viene in mente Piazza Unità d’Italia a Trieste. Quell’apertura della terra verso il mare, quel tutto che si distende ed estende. Ed è così che vorrei sentirmi.
Ma paradossalmente ottengo l’esatto opposto. La mia libertà a volte mi rinchiude e mi blocca. La mia libertà non mi fa piangere. Mi ha reso dura, forte, decisa. Tante belle conquiste… e poi?

Stanotte ho assaporato parole forti, che un tempo erano pugni allo stomaco. Mi ci ritrovo tutt’ora, le pronuncio urlando in uno stadio come se fossero fisiche, come se le masticassi o le leccassi. Ma non piango, non mi commuovo. Ripercorro il passato, e spunto nella mente tutte quelle situazioni cantate e che io ho superato. Mi sento arida, fredda. Vuota. Non ho nessuno a cui dedicare desideri nascosti, né da mandare a fanculo o da dimenticare. Non desidero alcun ritorno. Tutto è nello scatolone della mia vita precedente. Non ho più la sensazione di aver perso una parte di me, perché questa si è rigenerata come la coda di una lucertola. Canto e penso a tutte quelle vittorie, e alla mia fuga da qualsiasi sentimento.

Ed eccola lì, la verità. Inutile fingere. Io non sono pronta. Non sono pronta ad abbandonare ciò che sono, la mia roccaforte di sicurezza, determinazione, risate, progetti che riguardano solo me. Una roccaforte di curiosità, passione, disciplina. La voglia di imparare, di migliorarmi su tutto, di diventare. Una me che non vuole o non sa lasciare spazi vuoti.

A capo, riga, spazio bianco.

Per dare ritmo, per respirare.

Solo camminando o correndo la mia mente trova il suo spazio bianco. E l’ho capito soprattutto in queste due settimane senza sforzi, per via di una banalissima tendinite. Non tanto per la fatica del riposo, quanto per una frase emblematica detta da un’amica: “Se non sei iperattiva nel corpo, è iperattiva la mente; e viceversa”.

Non sono pronta perché devo sciogliere ciò che si è cementato dentro, ciò che si muove e borbotta con movimenti circolari. Non riesco ad accettare un sentimento perché sento di aver bisogno di dimostrare qualcosa. Perché non voglio accontentarmi, ma non è solo questo. Voglio dimostrare a chi e cosa? Con i miei viaggi, con le mie azioni forti, con la mia sincerità a volte sboccata cosa voglio dire? Che anche se sono timida non sono una “femminuccia”? Si tratta di una sensazione di confusione tra il maschile e il femminile che sono in me? Una ribellione disordinata e spastica ad alcuni stereotipi di genere nei quali non mi trovo? O perché la mia introversione o timidezza mi fanno apparire stupida? Respiro con fastidio una tendenza alle etichette, per cui non importa più se mi va di fare una cosa, perché tanto ci sarà sempre qualcuno che mi dirà che è di moda e sono conformista in ciò che scelgo. O ci sarà qualcuno che invece mi farà sentire un’aliena per alcune banalità, o perché accetto con fatica di possedere in me alcune caratteristiche femminili.

Uno, due, tre se conto Londra, quattro con il Cammino e cinque il Brasile che ancora deve venire. Cinque. Per sentirmi forte. Perché amo viaggiare. Perché la bellezza si auto alimenta e più lo faccio e più lo voglio fare. Perché da sola scopri particolari, vivi esperienza più forti e ogni elemento non è più vacanza, ma viaggio. La soddisfazione di organizzare, di averlo creato tu. Non è tanto ciò che visiti, ma come ti muovi a fare la differenza. E i momenti di felicità sono impensabili: un giorno di diluvio in Cambogia, un aereo interno viaggiando leggera tra Hanoi e Saigon e la guida che prende vita sotto la tua matita; quegli aneddoti che continuerai a ripetere per non dimenticarli mai. Ma c’è anche quella spinta là sotto. Lo sai che c’è. Dimostrare a te stessa di essere forte. Dimostrarlo agli altri. Al sesso maschile soprattutto. Forse a quel padre che vuoi stupire sempre, che vuoi non deludere, al quale vuoi dire che non c’è solo la tua timidezza, e che quella timidezza non è così una brutta roba. Sa essere bella, la stai accettando, ma non riesci a farlo del tutto fino a che non senti che quel legame con l’uomo per eccellenza si è ricomposto. Fiducia, accettazione, orgoglio. Semplicemente amore nelle nostre incolmabili diversità. Diversità di opinione, religione, politica, pensiero, ma stessi geni quando si tratta di quelle caratteristiche di personalità che fanno sorridere.

E poi ne hai ancora da scavare per scioglierti. Ci sono le blatte da affrontare: gli aspetti oscuri di te, quelli che ti fanno schifo, ma che ci sono. Quella cattiveria che sta lì, quell’egocentrismo che non ti fa vedere l’altro, quell’invidia che va analizzata e sminuzzata. Ho letto un libro sull’introversione: “Quiet” di Susan Cain. Mi ha aperto il mondo del mio narcisismo (mi piaccio e mi amo tantissimo eppure la maggior parte delle volte non mi accetto). E mi ha permesso – tra i mille spunti – di indagare i miei moti di invidia e quindi la mia ambizione, del tutto svincolata dal classico desiderio di diventare quadro in azienda, ma molto più vicino all’idea di fare un lavoro unico, creativo, cerebrale. Ma le schifezze sono ancora più profonde. Mi troveranno, si presenteranno. E le accetterò queste blatte.

Qualche notte fa ho sognato uno sconosciuto nel gesto di presentarsi e subito dopo un uomo che mi soffoca e si lamenta dei miei atteggiamenti ondeggianti, liberi e prepotenti. Ecco. La summa delle mie relazioni: amo il corteggiamento, la lusinga, il riempire alcuni vuoti, la parola piena di contenuto, ma è indispensabile che tutto ciò non ecceda la misura per non vedermi fuggire nella mia amata solitudine. E – forse – sto anche accettando di conoscere ciò che di me è sepolto.

Devi anche fare sì che nessuno si possa sentire in diritto di dirti che devi essere più o meno qualcosa. Non parlo di non accettare critiche costruttive. Sono convinta che serva circondarsi di Maestri.
Parlo invece di quella tendenza che hanno con te alcune persone. Dirti che prendi un gelato troppo calorico (quando hai appena fatto 30 km a piedi), dirti che dovresti parlare in pubblico, guidare l’auto, trovarti un uomo, essere più magra, più femminile, meno spacca coglioni, più socievole, lavorare di più, essere meno chiusa, più – meno – più – meno – più – meno – più – meno e sei sfinita. Perché non vai mai bene. Sei tu la più critica con te stessa e questo rende critici gli altri verso di te. Forse sei tu che – senza saperlo – dai questa autorizzazione? Tu permetti che ti dicano di mangiare di più o di meno, di ballare di più o di meno? Da dove inizia tutto ciò? Da dentro o da fuori? Dove sta la tua debolezza e perché ti ammazzi per colmarla? Quei viaggi per dimostrare che sei forte sono dentro di te. Vuoi urlarlo che sai stare sola, che sei capace di fare “tutto”. E sai bene che non è vero. E sai bene che nessuno ti vorrà meno bene per questo. O ti stimerà e ammirerà di meno.

Alla fine del concerto hai capito che quel nodo, quel grumo sta ancora lì. Ora lo sai. Sai che sei felice fuori e che lo sei dentro, ma solo per tre quarti. “Dopo un lungo inverno accettammo l’amore…”.
Non sono ancora pronta, ma amerò di nuovo, senza vergogna e senza paura. E sarà come quell’abbraccio che mi ha fatto piangere e sciogliere. Quello del fidanzato di un’amica, quello del perdono per uno schiaffo, quello che ha riportato la pace in tempo di lutto. Un abbraccio potente dal quale sono sgorgate lacrime liberatorie. Quel concetto di libertà cambierà, ti cambierà e non sarai mai più schiava di te stessa.

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C’è chi ha detto tutto ciò meglio di me:

Scivoli di nuovo
Conti ferito le cose che non sono andate come volevi
temendo sempre e solo di apparire peggiore
di ciò che sai realmente di essere.
Conti precisi per ricordare quanti sguardi hai evitato
e quante le parole che non hai pronunciato
per non rischiare di deludere.
La casa, l’intera giornata,
il viaggio che hai fatto per sentirti più sicuro
più vicino a te stesso,
ma non basta, non basta mai.

Scivoli di nuovo
e ancora come tu fossi una mattina
da vestire e da coprire
per non vergognarti
scivoli di nuovo e ancora
come se non aspettassi altro
che sorprendere le facce
distratte e troppo assenti
per capire i tuoi silenzi
c’è un mondo di intenti
dietro gli occhi trasparenti
che chiudi un po’.

Torni a sentire
gli spigoli di quel coraggio mancato
che rendono in un attimo
il tuo sguardo più basso
e i tuoi pensieri invisibili
torni a contare i giorni
che sapevi non ti sanno aspettare
hai chiuso troppe porte
per poterle riaprire
devi abbracciare
ciò che non hai più
La casa, i vestiti, la festa
ed il tuo sorriso trattenuto e dopo esploso
per volerti meno male,
ma non basta, non basta mai

Scivoli di nuovo
e ancora come tu fossi una mattina
da vestire e da coprire
per non vergognarti
scivoli di nuovo e ancora
come se non aspettassi altro
che sorprendere le facce
distratte e troppo assenti
per capire i tuoi silenzi
c’è un mondo di intenti
dietro gli occhi trasparenti
che chiudi un po’.

E non vuoi nessun errore
però vuoi vivere
perché chi non vive lascia
il segno del più grande errore.

Scivoli di nuovo
e ancora come tu fossi una mattina
da vestire e da coprire
per non vergognarti
scivoli di nuovo e ancora
come se non aspettassi altro
che sorprendere le facce
distratte e troppo assenti
per capire i tuoi silenzi
c’è un mondo di intenti
dietro gli occhi trasparenti
che chiudi un po’.
Che chiudo un po’.
Che chiudi…

E ancora …

L’Olimpiade
Casco e non mi arrendo
Riderai vincendo
E saprai che ciò che hai lo devi a te!

La fine
Io non lo so chi sono e mi spaventa scoprirlo,
Guardo il mio volto allo specchio
ma non saprei disegnarlo
Come ti parlo, parlo da sempre della mia stessa vita,
Non posso rifarlo e raccontarlo è una gran fatica.

Vorrei che fosse oggi, in un attimo già domani
Per reiniziare, per stravolgere tutti i miei piani,
Perchè sarà migliore e io sarò migliore
Come un bel film che lascia tutti senza parole.

Non mi sembra vero e non lo è mai sembrato
Facile, dolce perchè amaro come il passato
Tutto questo mi ha cambiato
E mi son fatto rubare forse gli anni migliori
Dalle mie paranoie e dai mille errori
Sono strano lo ammetto, e conto più di un difetto
Ma qualcuno lassù mi ha guardato e mi ha detto:
‘Io ti salvo stavolta, come l’ultima volta’.

Quante ne vorrei fare ma poi rimango fermo,
Guardo la vita in foto e già è arrivato un altro inverno,
Non cambio mai su questo mai, distruggo tutto sempre,
Se vi ho deluso chieder scusa non servirà a niente.

Il sole esiste per tutti
E trasceso il concetto di un errore
Ciò che universalmente tutti quanti a questo mondo
Chiamiamo amore

Blunotte  – Carmen Consoli
Forse non riuscirò
a darti il meglio
più volte hai trovato i miei sforzi inutili
forse non riuscirò
a darti il meglio
più volte hai trovato i miei gesti ridicoli
come se non bastasse
l’aver rinunciato a me stessa
come se non bastasse tutta la forza
del mio amore
e non ho fatto altro
che sentirmi sbagliata
ed ho cambiato tutto di me
perché non ero abbastanza
ed ho capito soltanto adesso
che avevi paura
forse non riuscirò
a darti il meglio
ma ho fatto i miei conti e ho scoperto
che non possiedo di più

Biglia meraviglia

ball-625908_1280La stanza è bianca: sopra, sotto, ai lati. Un cubo bianco candido di cui io sono il centro. Mi vedo in piedi, eretta nella postura, senza increspature o pieghe. Che poi ci penso e mi dico che, in fondo, non mi piace raddrizzare linee curve o eliminare con il ferro le grinze dei vestiti. Sono una che non stira, non ne sento la necessità, mentre adoro il rito della lavatrice, dello stendere, del riordinare di tanto in tanto quel caos rigoroso e del pulire superfici. La stanza, dicevo, è linda. Vorrei sapere cosa attendo, a occhi chiusi. Aspetta… sto sognando i miei genitori e mia nonna, sto facendo un turno in ambulanza, come una volta, ma ora sono impreparata. Mentre controllo con scrupolo il materiale, scopro che quel mezzo è pieno di quaderni e penne. Mi sposto ancora – nel sogno – mentre la mia figura resta immobile nella stanza bianca. Ora sto ballando, i miei genitori che mi guardano, poco dopo sono di nuovo in ufficio, in ambulanza, con mia nonna. Qualcuno mi urla “è finita”.

Ecco, è lì che si va, quando si sogna? In una stanza bianca nella scomodità di una postura eretta? Mi osservo ancora a lungo, percepisco la mente piena di biglie, di pensieri, di pezzi di un puzzle confuso. Le biglie sanno scivolare dalla mente al naso, dal naso alla gola. Dalla fossetta tra le clavicole – quella deliziosa parte all’apparenza sensuale – le biglie ritornano su verso la spalla, sostano e scendono al braccio che scrive. Escono trasformate in parole, dalle dita, dagli occhi, dalla fossetta, dalla nuca. Sono leggere. Si incastrano, a volte, si depositano quando sono ostili e non riescono a riemergere. Stanno lì, buone. La mia postura eretta persiste, nella stanza bianca e un po’ trasparente. Mi sento con un’occasione in tasca, una sorta di opportunità danzante davanti alle mie iridi intrise di sogni. Metto le mani sui fianchi, quasi a cercare quelle tasche piene di buone novelle. Non posso parlare, ma immagino creando fantasie. Prima c’è lo smarrimento, come quando dal medico hai la diagnosi: grave quanto basta per pensare in una frazione di secondo a tutto ciò che di negativo porterà nella tua vita quel verdetto. Poi, se la gravità è contenuta, subentra un sottile sollievo. Vedo un serpentello strisciare, sibilare, muoversi con fare furtivo. Sento che smuove qualcosa, riporta alla luce vecchi sogni e qualche speranza sgualcita. Forse… forse ora potrei, ora che porto sulla pelle la mia storia e i miei simboli, ora che voglio essere ciò che sono, liberarmi, essere la mia stessa voce, forse ora nell’imperfezione qualcosa si è mosso. Io? Mi guardo nella stanza bianca, eretta, immobile. le biglie impazzite che si spintonano dentro la mia testa per dissolversi attraverso un sorriso. Gli occhi si spalancano, la stanza acquista un color farfalla e ciò che era fermo ora si muove.

Flussi di pensieri o coscienza sparsa

stones-167089_1280Il ritorno è sempre caos. Che sia per un mese, nove giorni o un anno. Credo sia più determinante e incisiva l’intensità dell’esperienza. L’inaspettato o l’inatteso, ciò che non è stato previsto. Alice direbbe che la sua mente sembra seguire questa strada. Prevede una reazione, la studia, la esamina, la sminuzza in parti piccole e certe. Non ha dubbi. Alice sa di voler tornare a casa, di avere le gambe stanche e impazienti di muoversi a un altro ritmo, sa di essere lieta di assaporare le vecchie abitudini. Si sente in pace Alice, all’idea di tornare. Quel viaggio tanto più perfetto quanto più è circolare: desiderio ardente di partire, gioia all’idea di atterrare di nuovo tra amici, lavoro e appuntamenti prestabiliti. Pochi giorni a casa, e già qualcosa delle sue previsioni le sfugge. Si sente sollevata all’idea che quel Cammino le manchi di nuovo e che partirebbe ancora senza esitazione. Per qualche istante, in quei nove giorni, aveva temuto di aver rovinato una perfezione, la bellezza intatta del suo viaggio estivo. È disorientata, Alice, perché quel tornare le sembra insipido, nonostante quei due passi di danza, la sua amica di 89 anni e la felicità per le piccole cose, un teatro, una risata, il risveglio.  Quelle piccole felicità che l’hanno tenuta allerta, vigile, senza rammarico. Accarezza quella sensazione piacevole, ogni volta che ripete agli altri – provandolo davvero – che il Cammino ti riporta alla vita.

Si sente ridondante, piena, sente un’inattesa felicità per aver scampato il pericolo di aver sprecato un’occasione, credendo di tornare dicendo che no,questa volta non era stato perfetto, non c’era stata alcuna magia, questa volta non aveva funzionato. Ma dopo questo primo sentore di previsioni errate, ecco, a cascata arrivano tutti gli altri sentimenti per una portentosa adunata. Cosa vorranno? Si chiede Alice strabuzzando gli occhi. È stata assente solo per nove giorni, in cui la fatica per qualsiasi cosa è stata la Regina di Cuori del suo estraniarsi. E invece sono lì: una leggera ansia per il lavoro, percepita come il senso di vuoto che provi sulle giostre, nervoso verso sé stessa, insoddisfazione, mancanza, assenza, e poi vita e pienezza e turbamento. Tutto insieme. Bella e tristemente sciupata, confusa, felice, luminosa, melanconica, strana. Pausa. Risale lentamente ogni sensazione, ciascuna le appare con un sonoro “pof”, per poi andarsene dopo una sosta più o meno lunga. Ripensa a tutto e ringrazia: la fatica è la chiave. La salita è la nuova conquista. Il primo Cammino le ha detto “goditelo”, con tutti quei “Buen Camino” che uscivano dalle bocche e dai muri. Il primo Cammino le ha detto tante cose, ma Alice pensa a quell’eccitazione per il percorso, la terra, il muscolo, il km. Alla bellezza del tragitto e alla rabbia dell’arrivo – inattesa, inaspettata. Mai Alice avrebbe pensato di provare rabbia arrivata a Santiago. Mai Alice avrebbe pensato di doversi arrendere a un arrivo diverso, dopo 800 km, bloccata da qualcosa di unico, mai avrebbe immaginato, nemmeno il giorno precedente, che il pianto sarebbe arrivato in Cattedrale, durante la messa, un misto amaro di profonda angoscia, tristezza, ira, rimpianto. Mai avrebbe pensato di arrivare alla fine del mondo, di considerarlo il suo arrivo e di essere serena e appagata, là. Sull’Oceano, con la conchiglia perfetta tra le mani e un senso di protezione e sicurezza mai sperimentato prima.

Il secondo Cammino, invece, le ha detto “vai avanti, vai più in là, vai oltre”, grazie al nuovo saluto – Ultreya – emerso solo ora qui e là e reso tangibile e concreto da un anello. Alice lo porta sempre con sé, con tutti i simboli del Cammino e quell’augurio che le serve proprio ora che si sente ferma, ora che vorrebbe trasformarsi, e si accontenta di esternarlo con nuovi capelli e idee da mettere sulla pelle. Ma non basta: Alice ha sempre detto di non amare gli anelli, non ne ha mai avuto uno, se non da bambina, o quella fedina della sua prima cotta. Eppure, quando ha visto quello del Cammino, non ha avuto dubbi. Era perfetto. Il Viaggio dei “mai” disattesi o dei “mai più” detti e ritrattati. Dopo la perfezione, dopo che ogni cosa ha seguito fluidamente il passo di Alice, ecco la dissonanza, la difficoltà di accettare, pur nella necessità di doverlo fare. Alice sapeva di dover lasciare andare senza essere passiva, ma giocando di equilibrio e di fatica. Sente l’urgenza di novità e cambiamenti premere allo stomaco, ora che è a casa. Si sente seduta su un ingranaggio pronto a sbloccarsi, ma ancora gracchiante e immobile. Alice, per ora, è nel suo paese.

Linee parallele

Si scostò da lui e scese da quel treno, di sicuro non l’avrebbe mai più rivista. A meno che – iniziò a fantasticare Marco – non fosse solita prendere quello delle 19.45 per Genova, “sì, sempre dal binario quattro. Ma strano, l’avrei notata anche prima”. Il folto gruppo dei pendolari forse avrebbe potuto nascondere quel viso. Marco da un anno e qualche mese non mancava un appuntamento con quel convoglio, forse un paio di volte per un raffreddore, e ad agosto per le ferie. Ma in quell’anno la terapia era regolare e costante. La visita iniziava alle 18.30 e finiva giusto in tempo per rientrare con i lavoratori instancabili. Arrivava al suo binario stravolto, confuso, a volte rabbioso o di una felicità pura. Il suo terapeuta, una donna, aveva un ruolo fondamentale nel determinare il suo stato d’animo al binario quattro di ogni mercoledì. Quella sera la calma e la lentezza lo avevano accompagnato per ogni singolo movimento delle gambe, delle palpebre, delle mani. Si accomodò sulla fredda panchina di metallo, in attesa, in anticipo per il treno successivo, in ritardo per i vagoni appena partiti. Lo zaino stava tra le gambe, la giacca verde scuro lo copriva fino al naso e i piedi erano comodamente stipati in scarponi pesanti, quasi da trekking. Chissà perché, poi, aveva optato per quelle scarpe per recarsi a Milano. Macinava pensieri quando si avvicinò una donna che aveva tutta l’aria di essere appena stata in un luogo teso, stressante, cupo e insidioso. Un ufficio, forse, ma non un bell’ufficio. Sembrava più l’espressione di chi è appena stato in ospedale, in un obitorio, o di chi lavora con un aguzzino. I capelli arruffati e trascurati, con il colore stinto, la rendevano ancora più aliena dal mondo delle belle donne in tacco e tailleur in attesa, come loro, del treno. Eppure se ne invaghì quasi immediatamente. Non fu un’emozione forte o violenta, quanto una lieve carezza: provò un’inarrivabile dolcezza nell’osservare quei lineamenti morbidi, quel sorriso appena accennato e anche le sue occhiaie così pronunciate suscitarono in lui la voglia di abbracciarla. Senza alcun sospetto, la donna si andò a sedere accanto a lui. Frugò rapidamente nell’enorme borsa e dopo qualche secondo lui la vide mentre osservava il cellulare, facendo scorrere veloci immagini e parole. L’uomo dietro di lei si alzò per andarsene poco più in là, forse con l’intento di sgranchirsi le gambe o di scaldarsi camminando un po’. Quell’uomo portò con sé anche la sua sigaretta, il suo odore di tabacco e fumo, e quella nube densa e impalpabile che circonda i fumatori. «Meno male che se n’è andato. Faceva una puzza …». Marco non si aspettava di sentire la sua voce. Quella donna aveva parlato, rivolgendosi a lui. Rimase sorpreso, senza il tempo necessario per registrare il messaggio, comprenderlo e rispondere a tono. “Quale puzza?” Si stava chiedendo Marco tra sé e sé. «Puzza di sigaretta, mi dà proprio fastidio», come se avesse indovinato il suo pensiero. Respirò, e mentre entrambi tirarono fuori ciascuno il proprio libro da zaino e borsa, le disse solo di non aver sentito alcun odore, ma lui aveva smesso, qualche anno fa. Nessun fastidio. Avrebbe forse voluto dire altro, di più, ma cosa? La guardò a lungo, mentre leggeva Alice Munro, chiuse la copertina del suo romanzo di Ken Follett, pensando a quanto i gusti della giovane fossero più delicati: ricordavano lo sbattere d’ali di una farfalla. Quella donna faceva pensare al movimento soffice di un uccello piccolo e lieve in volo, mentre lentamente e con quel rumore di aria sferzata, sbatte le ali. Sì, quella donna era il suono di un fendente. Di una racchetta da tennis o di un bastone di arti marziali. Il suo stupore era accentuato dall’argomento – il solo – al quale si era fatto accenno nelle poche parole scambiate su quel binario. La terapia appena conclusa aveva toccato il tema del fumo per circa quaranta minuti. Aveva solo sognato di ricominciare, ma fugando ogni intenzione al risveglio, nulla di paragonabile a Zeno e alla sua coscienza, ma con due date precise in testa: 4 aprile e 14 luglio. Inizio e fine. Quindici e ventisette anni. Si era distratto con questi pensieri, quando il trenò annuncio il suo arrivo con il solito sferragliare, fischiare e stridere, in questo preciso ordine. La donna se ne andò, lui la raggiunse, lei si sedette, lui rimase in piedi fino a quando lei scese alla prima stazione lasciando a lui quel posto vuoto. Si erano rincorsi come onde, sfiorandosi solo in una frazione di secondo. “Avrei potuto dirle arrivederci”, pensò Marco. Ormai era tardi. Un’onda era arrivata alla spiaggia, l’altra era ancora lontana, persa nei suoi pensieri di fumo e lettini freudiani. Pensò allora che la bellezza di quel momento avesse senso proprio nel mistero, nella coincidenza di una sigaretta e in un battito d’ali scomposto di una donna stanca.