Confusione

Etiopia-418Mi dicono che sono bloccata: me lo dicono persone che mi conoscono bene, benissimo, chi non mi ha mai visto, chi mi ha visto mezza volta, chi mi ascolta parlare, chi non crede nella psicoterapia, chi ci crede troppo, chi parla per sentito dire, chi ha studiato, chi mi chiede anche perché? Chi non sa niente di me e chi sa qualcosa, quasi mai chi sa tutto. Mi dicono che lo sono in fotografia e nella scrittura. Me lo dico da sola, lo faccio credere, lo credo e diventa vero, lo vivo, lo esprimo, lo trasmetto. Lo sono anche in cucina e in amore. Lo vedo. Forse lo faccio apposta senza sapere di fare apposta e senza sapere perché. E forse mi sono anche un po’ stufata.

Sono andata a Bergamo impiegandoci più del previsto: a rallentatore, con le mani freddissime e asciutte, un senso di vampata quando la città mi ha inghiottita. Ho incontrato un fotografo che è anche un genio, mi ha parlato per ore di Platone e Aristotele, mentre io pescavo ricordi con difficoltà da qualche cassettino: erano troppo in fondo, troppo chiusi, troppo impolverati. Quasi relitti. Mi torna in mente la scena di apertura di Titanic. I miei ricordi stavano lì: sott’acqua tra le alghe e i cimeli di un tempo splendido. Ero ancora in panico – quasi un attacco –  per un incrocio o rotonda che ancora adesso mi sto chiedendo come diamine funzioni, ed ecco che, prima che potesse andarsene quella sensazione viscida e stancante, mi è venuto un altro tipo di panico: quello da programmazione, step, cose-necessarie-che-devi-studiare-e-sapere.

Come se dovessi studiare tutto oggi, in queste poche ore. Come se dovessi.

Non devo. Voglio. Ho capito ciò che non voglio e un pizzico anche ciò che voglio. Capire prima di tutto. Anzi, voglio fare. Sporcarmi, fare cose talmente imperfette da essere sbagliate, fare senza dirmi che non è il momento giusto, che devo rifinire, sistemare, non sono ancora capace. Vaffanculo. Faccio e basta. Come viene, viene. Mi mancano diverse basi per fare la brioche che magari non sarà una brioche, mi manca la post produzione – tutta – mi manca un “cosa vuoi fare?”.  Le regole senza regole, ché io e le regole…

Sto raccogliendo input.

Sto leggendo Imperium, ho aperto Istanbul di Pamuk. Mi sono innamorata di Pamuk (già dopo Neve), perché – tranne Saramago che resta il mio assoluto – sono ballerina nelle mie infatuazioni. Quindi devo finire in fretta Imperium ché Istanbul mi sta piacendo di più. Settimana scorsa sono andata a correre per due mattine: poca roba come km e minuti. Ho troppo da portare. poco fiato e poco tempo: ma l’ho fatto. Mi sono svegliata per tre mattine alle 5:30 (una per yoga), sono andata al cinema a vedere un affare di famiglia – dormendo e ridendo e rimanendo a bocca aperta, con l’amaro dentro – ho scritto le pagine appena sveglia, quelle che nessuno leggerà – nemmeno io – ma che mi servono, ho contattato persone, fatto girare energie, chiesto, domandato, risposto a chi mi chiedeva informazioni sul Kilimanjaro o sulla Tanzania (in due in poco tempo), fissato incontri con amici e con mostre che vorrei vedere, con sconosciuti che vorrei incontrare, sono in un vortice. Positivo e pericoloso, pericoloso e positivo.

Fanculo ai blocchi (ci sono, ci sono sempre…): ripeto, ripeto, ripeto, come per essere sicura che alcune cose siano vere. Un’amica mi suggerisce di parlare con il censore interno e farlo stare buono buono, dandogli un contentino. Io penso che sia una buona strategia, tanto parlo già da sola in abbondanza. Penso che ci sia troppa roba. Troppa roba per un giorno solo, mentre guido in tensione e disidratata e confusa. E poi prenderò un treno: e penso al treno che adoro, che mi rilassa. Ho la borsa e la testa piene. Mi dico che sto tagliando: niente più corsi, forse solo teatro, ché non posso non fare niente. Niente. Niente più. Iago mi fa festa ed è triste quando capisce che me ne sto andando. Lo saluto. Tornerò presto.

Sto tagliando dappertutto per fare spazio, ma sembra che invece siano cresciute ancora più piante con più rami, con più foglie e con un sacco di fiori.

Non ci sono ancora frutti.

 

 

 

 

Blonde

38122940_10156712050115209_3084411857176363008_nHo finito Blonde.

Stamattina sul treno, in metro, sulle scale mobili verso l’uscita della gialla.

Ho avuto un brivido, ho letto l’ultima riga, ho chiuso il libro. Quello dietro di me deve avermi vista camminare tra i pedoni di agosto con la pagina, l’ultima, tra le dita. La pelle come se avessi freddo.

Ci sono libri che non ti cambiano la vita, ma sono in grado di attaccarsi ai polpacci, avvinghiandosi alla carne,  non si staccano, ti entrano dentro. Non si tratta di bellezza, non si tratta di rivoluzione, rivelazione, significato. Semplicemente si incollano a te e ti sorprendono così tanto che non riesci più a pensare ad altro, a riprenderti da una sorta di scossa. Nella mia vita, posso annoverare solo – credo – due libri di questo tenore:  Cecità di Saramago e Blonde di Joyce Carol Oats. Non ci metto DFW, sebbene abbia vissuto in simbiosi con quel libro per cinque mesi né altri capolavori che mi hanno conquistata, incatenata alla pagina, che mi hanno fatto ridere e piangere, soffrire e gioire. Non li cito perché non sono stati sconvolgenti. Non come Cecità o come Blonde. Non sono solo belli, scritti bene, avvincenti, piacevoli, scorrevoli, duri: sono vivi.

Sono due libri vivi.

Non si torna indietro.

Blonde ti restituisce una donna. Blonde ti fa sentire Marilyn in tre modi diversi.

Ti fa sentire lei: cosa ha vissuto, cosa ha pensato, cosa ha sperimentato e provato. Anche se è romanzo, finzione, invenzione, puoi sentire sulla tua pelle cosa Marilyn abbia sentito, cosa abbia provato e pensato Norma Jean. Restituisce un sentire doppio, multiplo, sfaccettato. Marilyn e Norma Jean. Norma Jean e Marilyn e Roslyn, Nell, Cherie, Rose e Lorelei. Le sentiamo tutte. Sentiamo con il tatto e possiamo sperimentare ogni sfumatura. Sentiamo il loro sesso, la loro lingua, le vene, la tachicardia, il sonnifero.

Ti fa sentire lei. Senza nessuna modestia. Ti fa sentire come se fossi lei. Una parte di lei. Persino lei ha provato questo e questo e questo: come è possibile? Quindi noi, noi, noi. Non mi sono sentita bella, intelligente, colta quanto lei: ho visto queste meraviglie da lontano, leggendole e conoscendone il mito. L’ho amata. Ho sentito il desiderio maschile e l’ho compreso. Quello dell’Ex-atleta e del Drammaturgo, quello del truccatore e di Cass Chaplin. Quello del primo agente che voleva sposarla. Eppure mi sono sentita comunque lei: una notte mi sono sognata truccata e vestita come lei. Il rossetto rosso. Le mie labbra antitetiche alle sue, come le sue. Parrucca bionda. La gente mi guardava e mi diceva che sembravo Grace Kelly. No, io sono Marilyn, dicevo. Voglio essere Marilyn. E mi ripassavo il rossetto guardando dallo specchietto retrovisore di un’auto d’epoca. Ho sognato Marilyn spesso. Ne ho parlato. L’ho cercata. Ne voglio leggere la biografia.

Ti fa sentire lei, come se incarnasse tutte le donne e gli uomini del mondo, tutte le paranoie, le allucinazioni, i peccati e i peccatori, i dolori, le gioie estreme, gli infantili entusiasmi, le voci, le elucubrazioni, tutte le intelligenze del mondo, i corpi, tutti i corpi del mondo, tutti i desideri e i sogni mai realizzati. Come se – senza blasfemia – se li prendesse addosso per liberare te. Come se fosse facile dire: ma dai, anche io…! Incarna il desiderio estremo di sentirsi amata e di amare. Non come un quarto di bue, come carne, come corpo, come lussuria, ma passandoci attraverso al quarto di bue e alla carne da macello. Come ricatto, come merce di scambio: il tuo amore per la mia carne da macello. Incarna il perfezionismo totalizzante. Incarna la paura: che ridano di te, che non ti desiderino. Di non essere mai abbastanza. Incarna la presenza, l’unicità, il compromesso. Incarna la pochezza umana che non esita a fare di una donna un oggetto. Incarna l’umiliazione. Incarna l’umanità che stereotipa, etichetta, categorizza, distrugge, annienta.

Più si procede più si scende, si precipita, si crolla. Più si procede più ci si annulla, ci si immedesima, ci si sente quasi magici, pieni di sincronicità, di creatività, di energie. Più si procede più si tocca Marilyn. Più si procede più la si vorrebbe o più lo si è, Marilyn. Più si continua, più si scava nel dolore e più al contempo si sale, si cresce, si esce a respirare.

È come se ci si staccasse: non il contrario del trasporto e dell’immedesimazione. Come se si potesse pensare solo: il destino si compie. Come se ci si lavasse, purificasse. Come se si affidasse a lei tutto ciò che di lei abbiamo: paranoie, problemi, voci. Ci si sente lei. Belle di una bellezza eterea e immateriale, pur lontana anni luce da lei. Ci si sente attraenti. Si scrutano sguardi. La si comprende. Le crediamo. Crediamo a tutto.

Compiangiamo Marilyn, proviamo compassione, tenerezza, rispetto. Crediamo a Marilyn, a Norma Jean. A Joyce Carol Oats. Entrambe Gemelli. Come me.

 

Sono io

IMG_8189In questo singolo istante mi sento felice.

È già passato.

Era l’istante prima: ora ne sento l’eco, il riverbero, l’onda che si propaga.

È una sensazione dai contorni indefiniti, sfuggente, si ritrae e si nasconde. Non si trattiene, non puoi implorarla dicendole: resta!

Decide come e quando andare, venire, se tornare. Quanto rimanere. Mi sono sentita come se dicessi: sono io.  Come se quel “sono io” mi rendesse felice. Come se questo accorgermi di me fosse in grado di rendermi forse più euforica che felice, piena di adrenalina. Ho lanciato uno sguardo sul tavolo, sulle boccette, le calzine nere, il beauty nuovo, il dentifricio piccolo. Ho finito una birra, ho provato la Ipa per la prima volta. Sarà moda, sarà che non la conoscevo. Ho messo sul fuoco friggitelli e melanzane, nonostante il caldo. Ci ho messo troppo insaporitore, non avevo sale. Un filo d’olio. Ho pensato di usarli come sugo per la pasta, domani. Lunedì al lavoro. Sono fradicia in viso. Sono seduta sul divano, mezza nuda.

Non so cosa sia successo. Mi sono sentita io. Mi sono vista io. Mi sono sentita fugacemente felice.

Ho sorriso. Ho pregato: continua. Ho pensato: puoi andare, tornerai.

Se ti trattengo è peggio. Ho fantasticato sulle Ande, sul Cile, sui miei desideri. Sulle foto.

Ho voglia di scrivere. Ho voglia di fare l’amore.

Di piacermi anche se non mi piaccio per niente, di vedermi come vorrei e come non sono. Voglio uno sguardo occhi negli occhi. Voglio quella roba che ha fatto Marina Abramovic, voglio uno che si accorga di me per strada. Come quando ero giovane, magra e bella.

Ho un quaderno bellissimo: in copertina c’è un albero, le pagine sono senza righe né quadretti. Sono quadrate. Piccole. Quando riesco mi sveglio mezz’ora prima per scriverne tre. Flusso. Un flusso interminabile appena sveglia fatto di sogni, fantasie, ricordi, orchestre che suonano, personaggi inventati, situazioni sentite, visioni, fotografie della mente. Mi sento bene, da quando lo faccio. Non resterà niente, ma resterà la mia energia per la giornata. Lo trovo un modo nuovo e diverso per fare yoga.

Ho voglia di vivere e non è scontato e quando succede la devo respirare questa voglia e fare mia.

Ho voglia anche di piangere per la gioia, per la tristezza e ridere a non finire. Ho voglia di bere birra ghiacciata seduta in un luogo dove tira vento, a piedi nudi e con un castello alle mie spalle. Ho voglia di andare. E di stare.
Ho voglia di assaggiare, piluccare. Ma anche di affondare, prendere, dare.

Ho voglia di vedere un film vecchio. Di lanciare pop corn a qualcuno, di ricominciare a studiare. Ho voglia di matematica.

Vorrei dare un esame, immergermi in acqua, ballare fino allo sfinimento, lavorare sodo, imparare uno sport, continuare a non tingermi i capelli e vederli bianchi mentre li raccolgo come a 20 anni. Vorrei cantare e stonare e suonare. Vorrei litigare. Correre in bici e urlare. Finire un libro e iniziarne uno nuovo. Salutare Marylin e dire benvenuto a te!

Vorrei sentire la sabbia ovunque, fotografare, dormire con la saliva che scende, succhiare cubetti di ghiaccio, pranzare all’aperto, stare con un libro da qualche parte al fresco, debuttare, stare su un palco, fare un corso nuovo, insegnare qualcosa a qualcuno, vestirmi leggera e lieve, sprofondare dentro a un’amaca, dondolare su un pulmino sghembo, farmi leggere le carte da una uruguaiana a Paraty, mangiare con le mani, accarezzare mani, sentirmi sporca e bella.

Vorrei strizzare i panni e stenderli, andare su un boda boda, sentire l’aria sulla faccia, essere già ovunque io vada. Essere di passaggio. Essere lontana da me ed essere me. Trovare le vie. I sapori, gli odori, le voci.

Per un attimo, per un istante ho sentito quella felicità, quella roba che non so bene cosa sia: non è pleasure e non è ancora joy. Ho pensato: sono io.

Giudizi

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C’è una cosa che vorrei dire. L’ho in testa da ieri, quando ho visto un video in cui un uomo dava consigli alle donne su come vestirsi per uscire con un uomo. Ho riso, ovviamente, perché in certi stereotipi ci sono dentro e perché la costruzione delle frasi è studiata per far ridere.

L’uomo inizia dicendo che quel video non piacerà alle femministe. Prosegue con l’elenco. Anzi, prima ci informa che si tratta di un video didattico: spiega come sono fatti gli uomini. Più semplici delle donne. In una frase è riuscito a infilarci ben due concezioni maschiliste: ti spiego io; siamo più semplici di voi.

Pantaloni no, tacchi sì. Quali? Non importa. Scollature, spacchi, schiena fuori: sì. Gambe nude. Nota positiva: chi se ne frega della cellulite. Smalto unghie: chi se ne frega. Capelli lunghi e lisci e coda alta. Trucco: stiamo meglio truccate. E via così. Sempre peggio.

Sono convinta che sia importante piacersi e piacere. Sono convinta che il gioco della seduzione possa essere elegante, di una bellezza chimica unica. Sono convinta che non ci sia nulla di male nel fare qualcosa per l’altro, uomo e donna che sia, rispettando tempi e inclinazioni personali.

Non sono convinta che sia questo il modo: un uomo dice alle donne come vestirsi a un appuntamento. Le donne sono un oggetto che deve farsi scegliere, tecnicamente secondo il video le donne devono mettersi in mostra al mercato del pesce: per una trombata oltretutto, mica per altro. Non importa cosa piace a noi. Come ci piacciamo noi. Come siamo fatte noi. Importa uno standard e importa avere un fisico arrapante e metterlo in mostra. Mettere in mostra parti di questa carne, di questo corpo.

Ci spiega come si fa. Un uomo ci dice che – in fondo – non capiamo un cazzo e che se i capelli non sono lisci e lunghi abbiamo perso in partenza. Un uomo parla a nome di tutti gli uomini di sto cazzo di mondo, pretendendo di sapere con assoluta certezza cosa piace e cosa no. Riunisce tutti gli uomini in un unico grande ammasso e tutte le donne nell’altro, in un ragionamento binario che speravo di non dover più sentire.

Dal mio punto di vista è anche una questione personale: io da un uomo – uno qualsiasi, bello brutto, che mi attragga o non attragga (e non saprei dare un elenco di cose sì e no come fa lui, perché io guardo la persona) – mi sento sempre – e dico sempre – giudicata. Che lui lo faccia o non lo faccia davvero: se ho un uomo davanti con cui confrontarmi per lavoro, amicizia, interessi/passioni, attivo la modalità “sotto esame”. Mi sento – più o meno consciamente – come se ci fosse una valutazione, un giudizio, un qualcosa che non so e che lui mi dovrà spiegare. E io dovrò ascoltare. Un parere dissonante per il quale chiedere scusa. Oppure, semplicemente, mi aspetto di dover fare chissà cosa per impressionarlo, per avere il suo consenso, per essere messa al suo livello. Penso che lui stia scandagliando il corpo mettendo spunte su cose che vanno e non vanno: e ovviamente le mie non vanno. Se lui mi attrae, la faccenda diventa ingestibile. Sono scappata da un ragazzo francese conosciuto in Brasile perché avevo due baffetti del cazzo.

Succede sempre, a prescindere da chi sia lui. Succede magari in grado differente a seconda del suo ruolo e della sua età, ma succede. Succede che io mi senta scema, che io sia impacciata, che io inizi dicendo subito che “non so qualcosa, non so fare qualcosa, mi scuso per la mia ignoranza, forse, ecco, magari è una domanda stupida…”. Succede che mi tocco la maglia, mi stiro, penso al mio addome, al capello incasinato, alla goccia di sudore, al mio viso senza trucco, al baffetto, al mio doppio mento. Succede che parlo malissimo, se parlo. Succede che conviverci è difficile. Succede che vorrei non sentire più nessuno dire a una donna come dovrebbe e come non è. A un uomo come dovrebbe e come non è. Non voglio che ci siano regole o criteri di giudizio e vorrei solo pensare a farmi bella per me come piace a me, per lui come penso possa piacere, ma senza tradire mai ciò che sono realmente (se odio i tacchi, continuo a non metterli, magari).

Voglio sentirmi comoda. Voglio sentirmi a mio agio. So anche che deve partire da me, dalla mia mente.

Essere. E basta.

Sola

29572587_10156388791375209_9212171892798951757_nSono sola.

Ho scelto. Desiderato. Non ho subito, non con leggerezza. Ho solo pensato: avrei bisogno di stare un po’ sola. Sono passati mesi, poi anni. Ho ringraziato la mia libertà, la mia capacità di stare bene: nel silenzio e nelle abitudini. Poi le abitudini sono diventate tenaci. Sono dure, potenti, ma mai uguali a loro stesse. Ci sono state onde: la sconfitta, la lotta e ancora la sconfitta. Ho visto nuove me stesse, ho visto vecchi difetti e schemi ripetuti. Vizi.

Brutta. Poi mi sono di nuovo piaciuta. Poi ho accettato qualcosa; qualcosa non lo sopporterò mai. Qualcosa lo rimpiangerò per sempre. Avrò nostalgia della mia pelle liscia, ferma, tesa. Sempre di più, mentre si ammorbidisce e si lascia andare come la pelle sopra a un vecchio tamburo consunto. Ho provato orrore per una vita che invade i miei spazi. Ho sperato in vite discrete, che non mi costringessero in orari, vincoli, stanze, impegni, programmi pianificati con troppo anticipo, film e città.

Sono sola anche quando mi pesa, quando compio gli anni. Anche quando penso che, forse, non sarebbe male condividere. Impazzirei. Mi abituerei. Metterei qualche asticella, paletto, cancello.

Sono sola quando mi sento bene, come stasera, come in alcuni weekend, come in alcuni giorni, spesso: ormai troppo spesso. Sono sola e posso. E posso decidere di immergermi quattro giorni tra sconosciuti che diventano conosciuti. Di annusare, sperimentare, scoprire, andare e venire, tornare, chiacchierare, imparare, cantare, camminare, ballare, osservare.

Sono sola perché non riesco a immaginarmi in altro modo.

Perché non piaccio. Perché non mi piaccio.

Perché amo il silenzio.
Perché non mi piacciono gli altri quando diventano un noi incalzante.
Perché l’aria è più lieve, perché nessuno mi aspetta e io non aspetto nessuno.
Perché non devo asciugare lacrime, strappare sorrisi: e nessuno lo fa con me.

Sono sola perché viaggio nella mia mente e non so farci entrare nessun altro. Quasi.
Perché voglio viaggiare fisicamente: mentre apro la guida dell’Etiopia pregusto la prossima adrenalina, il prossimo cambiamento, la mia personale crescita. I doni. Il grasso che cola, gli orpelli. Ciò che verrà e che non conoscerò fino a quando non avverrà.

Ho scelto, ho scelto ancora. Non mi sono mai pentita. Mi apro a fatica. Sono fatta per gli equilibri delicati e soffusi. Per le abitudini che posso disfare e ricostruire come voglio. Non sono fatta per il doppio dei vestiti nell’armadio, per le luci lasciate accese in camera, per qualcosa che non è mio e che non riconosco a prima vista.

Mi capita di sentirmi sola con un nocciolo tenace, aggrappato al cuore. Appeso lì, a livello dello sterno. Un nucleo solido, solo, potente. Mi capita di adorare la mia solitudine intesa come intimità e conoscenza di me, come possibilità di essere e fare. Mi capita di apprezzare la compagnia e di cercarla.

Mi capita di sentirmi molto fortunata. Di cantare un mantra d’amore, di bere birra e leggere un libro.

 

Giada

Es_1-26Coccinelle come centro tavola. Rebbi, si chiamano rebbi? Tovaglia sgualcita. Specchio. Uno specchio enorme lungo tutta la parete alle mie spalle. Mi sentivo osservata da uno specchio. Stavo seduta rigirando mollica di pane tra le dita, la mia mente sfiorava e rigirava. Rigirava cose.

Il tavolo accanto era occupato da una coppia: lei aveva una camicia abbottonata fino al collo. Era a righe sottili, sfondo bianco, portata su jeans scuri. Lui era abbronzato. Ricordo un piccolo tatuaggio sul polso, la felpa bordeaux, la barba appena fatta. Avevano parlato per tutto il tempo di una villetta da affittare per le vacanze e di Giada, che a lei stava proprio sul cazzo. Doveva esserci anche Giada, davvero? Con quel suo amichetto troppo silenzioso, troppo molliccio. Era persino troppo alto e troppo magro. Lui aveva annuito, stringendo i pugni sul tavolo. Lei aveva alzato la forchetta, disegnando una riga con i rebbi.

Mi alzai. Mi portai di fronte a lui. Era bello. Mi stupivo ogni volta di quanto fosse semplice mandare un segnale: si alzò anche lui. Era un caso, mi dissi: stiamo andando in bagno entrambi. Mi sorpassò per entrare per primo.

Uomini, donne. Lo vidi sciacquarsi la faccia. Mi sorrise.

Si asciugò di fretta, lasciando zone bagnate ai lati del viso. Poi prese il telefono e mi guardò ancora. Fece qualche passo dandomi le spalle, prima di tornare verso lo specchio di fronte al lavandino.

– Amore? Giada, puoi parlare?

La ragazza sul treno

11705952_10153567263045209_1466884492_oLe lentiggini potevano essere finte. Disegnate con la matita: ero di fronte a lei e cercavo di capire se quelle lentiggini fossero vere, grandi come lenticchie, chiare, di un marrone leggero ma definito. A vent’anni, può essere che ci si disegni le lentiggini, no? A vent’anni si disegnano le lentiggini e magari la matita marrone si sofferma anche sulle sopracciglia, per riempire vuoti eliminati con la pinzetta. Vuoti studiati, davanti allo specchio, con perizia. Questa si toglie; questa si lascia.

A quell’età anche le ciglia si curvano sotto il peso del mascara nero e appiccicoso, si dividono in ciocche pastose, evidenti e dure. Lei aveva gli occhiali. La montatura nera e squadrata non nascondeva gli occhi, eppure non li ricordo. Ricordo i capelli rossi, scuri, legati tanto stretti che si vedeva la tensione sottile dell’attaccatura, forse dolorosa. Aveva due brillantini al naso, uno per lato, e un anellino nero sul setto. Le labbra erano dipinte con una matita opaca: disegnate per rendere l’idea della carne, della morbidezza, l’idea del bacio che loro, di sicuro, daranno stasera.

– Esco con gli amici. Non lo so, come faccio a saperlo? A mezzanotte… sì, dai, va bene.

Ha sbuffato e si è tirata su gli occhiali. La gonna di jeans lasciava intravedere un tatuaggio a metà coscia. Lo zaino la copriva. L’avambraccio sinistro, internamente, sembrava riportare il profilo di una donna indiana: intravedevo le piume, due strisce colorate sugli occhi. Poco, ma si intuiva tutto.

La prima cosa che di lei ho visto è stato, tuttavia, quel triangolo di pelle bianco, quasi opalescente, senza ombre, senza intenzioni, nella zona dello sterno. La sua maglietta era appoggiata; era leggera. Non si increspava né si muoveva. La scollatura a v terminava in un fiocco, forse. Era come disegnata addosso.

Non si vedeva, eppure era tutto lì.

Era evidente.

Era evidente la sua giovane età, il suo sangue: la immaginavo sgomitare, correndo per trovarsi un posto, da qualche parte: nei sogni di qualcuno, tra le braccia di qualcuno, in un banco di scuola, nei complimenti delle sue amiche, di sua madre, degli insegnanti. Immaginavo la costruzione metodica di uno stile: le lentiggini, la fascia, i tatuaggi, le labbra carnose, i vestiti. Mi piace; non mi piace più. Si sarà domandata: sono bella? Pur essendo così evidente la sua bellezza, sono certa che si sarà interrogata su un preciso, minuscolo difetto. Si domanda se è bella, se è brava. Forse lo sa; forse lo sfoggia risoluta.

Il treno ha rallentato. Ci siamo alzate entrambe.

Ferma in piedi tra i sedili, avrei voluto rinascere in quel momento e avere subito diciassette anni. Avrei voluto i capelli viola e i rasta che non mi sono mai fatta, un accessorio di moda addosso, una gonna troppo corta, un maglia troppo stretta: qualcosa che gli adulti no, non capiscono. Avrei voluto ascoltare musica di merda della mia età. Ho rivisto il legno sporco di un bar e sentito l’odore dell’adolescenza che finisce.

Il treno si è fermato. Siamo scese entrambe.