Mi dicono che sono bloccata: me lo dicono persone che mi conoscono bene, benissimo, chi non mi ha mai visto, chi mi ha visto mezza volta, chi mi ascolta parlare, chi non crede nella psicoterapia, chi ci crede troppo, chi parla per sentito dire, chi ha studiato, chi mi chiede anche perché? Chi non sa niente di me e chi sa qualcosa, quasi mai chi sa tutto. Mi dicono che lo sono in fotografia e nella scrittura. Me lo dico da sola, lo faccio credere, lo credo e diventa vero, lo vivo, lo esprimo, lo trasmetto. Lo sono anche in cucina e in amore. Lo vedo. Forse lo faccio apposta senza sapere di fare apposta e senza sapere perché. E forse mi sono anche un po’ stufata.
Sono andata a Bergamo impiegandoci più del previsto: a rallentatore, con le mani freddissime e asciutte, un senso di vampata quando la città mi ha inghiottita. Ho incontrato un fotografo che è anche un genio, mi ha parlato per ore di Platone e Aristotele, mentre io pescavo ricordi con difficoltà da qualche cassettino: erano troppo in fondo, troppo chiusi, troppo impolverati. Quasi relitti. Mi torna in mente la scena di apertura di Titanic. I miei ricordi stavano lì: sott’acqua tra le alghe e i cimeli di un tempo splendido. Ero ancora in panico – quasi un attacco – per un incrocio o rotonda che ancora adesso mi sto chiedendo come diamine funzioni, ed ecco che, prima che potesse andarsene quella sensazione viscida e stancante, mi è venuto un altro tipo di panico: quello da programmazione, step, cose-necessarie-che-devi-studiare-e-sapere.
Come se dovessi studiare tutto oggi, in queste poche ore. Come se dovessi.
Non devo. Voglio. Ho capito ciò che non voglio e un pizzico anche ciò che voglio. Capire prima di tutto. Anzi, voglio fare. Sporcarmi, fare cose talmente imperfette da essere sbagliate, fare senza dirmi che non è il momento giusto, che devo rifinire, sistemare, non sono ancora capace. Vaffanculo. Faccio e basta. Come viene, viene. Mi mancano diverse basi per fare la brioche che magari non sarà una brioche, mi manca la post produzione – tutta – mi manca un “cosa vuoi fare?”. Le regole senza regole, ché io e le regole…
Sto raccogliendo input.
Sto leggendo Imperium, ho aperto Istanbul di Pamuk. Mi sono innamorata di Pamuk (già dopo Neve), perché – tranne Saramago che resta il mio assoluto – sono ballerina nelle mie infatuazioni. Quindi devo finire in fretta Imperium ché Istanbul mi sta piacendo di più. Settimana scorsa sono andata a correre per due mattine: poca roba come km e minuti. Ho troppo da portare. poco fiato e poco tempo: ma l’ho fatto. Mi sono svegliata per tre mattine alle 5:30 (una per yoga), sono andata al cinema a vedere un affare di famiglia – dormendo e ridendo e rimanendo a bocca aperta, con l’amaro dentro – ho scritto le pagine appena sveglia, quelle che nessuno leggerà – nemmeno io – ma che mi servono, ho contattato persone, fatto girare energie, chiesto, domandato, risposto a chi mi chiedeva informazioni sul Kilimanjaro o sulla Tanzania (in due in poco tempo), fissato incontri con amici e con mostre che vorrei vedere, con sconosciuti che vorrei incontrare, sono in un vortice. Positivo e pericoloso, pericoloso e positivo.
Fanculo ai blocchi (ci sono, ci sono sempre…): ripeto, ripeto, ripeto, come per essere sicura che alcune cose siano vere. Un’amica mi suggerisce di parlare con il censore interno e farlo stare buono buono, dandogli un contentino. Io penso che sia una buona strategia, tanto parlo già da sola in abbondanza. Penso che ci sia troppa roba. Troppa roba per un giorno solo, mentre guido in tensione e disidratata e confusa. E poi prenderò un treno: e penso al treno che adoro, che mi rilassa. Ho la borsa e la testa piene. Mi dico che sto tagliando: niente più corsi, forse solo teatro, ché non posso non fare niente. Niente. Niente più. Iago mi fa festa ed è triste quando capisce che me ne sto andando. Lo saluto. Tornerò presto.
Sto tagliando dappertutto per fare spazio, ma sembra che invece siano cresciute ancora più piante con più rami, con più foglie e con un sacco di fiori.
Non ci sono ancora frutti.